L’evoluzione del cyberpunk dagli inizi alla cyberfiction femminista
Durante la prima metà degli anni Ottanta si assiste alla formazione di un gruppo di giovani scrittori di fantascienza che affrontano temi molto vicini alla realtà politica e quotidiana del tempo: vengono ben presto soprannominati cyberpunks e sono guidati da William Gibson e Bruce Sterling. Si scagliavano contro il sistema con l’intento di scardinarlo, ma quanto erano davvero rivoluzionari?
Come dichiara Sterling stesso nella prima raccolta ufficiale di racconti, Mirrorshades (1986), essi intendevano liberare la fantascienza dai canoni imposti fino a quel momento. Infatti, propongono protagonisti che sono perlopiù antieroi, hacker emarginati dalla società, delusi e insoddisfatti, che preferiscono di gran lunga distaccarsi dal proprio corpo entrando nella dimensione cibernetica che cercare di risolvere i propri problemi col contatto umano. L’assenza del corpo e la possibilità dell’alienazione all’interno del cyberspazio (termine che indica un’evoluzione del tipo di internet che conosciamo) sono di gran lunga più invitanti. È qui che troviamo uno dei grandi problemi delle prime narrazioni, infatti il distacco dalla carne viene visto come il raggiungimento di una sorta di Nirvana digitale: all’interno del cyberspazio le creature sono tuttə uguali in quanto privə di qualsiasi caratteristica fisica e quindi di qualsiasi possibilità di connotazione di genere, sessualità o etnia. Tuttavia, in questo modo il tentativo di appianare le divergenze finisce, invece, per appiattire la diversità.
Sebbene il genere partisse da un contesto underground colmo di rabbia e insoddisfazione, approdò molto presto nella cultura mainstream. Ha così raggiunto un pubblico più vasto, ma anche una conseguente commercializzazione e stereotipizzazione. Finisce così che i personaggi principali sono quasi sempre maschili, bianchi, eterosessuali e cisgender, le figure femminili estremamente sessualizzate e subordinate al raggiungimento dello scopo dell’antieroe informatico. Diversità di genere, sessualità ed etnia sono rappresentate soltanto sullo sfondo o nel sottotesto. Le minoranze cominciarono ben presto a lamentare una mancanza di concretezza all’interno di narrazioni dove ci si oppone solo apparentemente allo status quo, che viene poi riaffermato con protagonisti sempre conformi all’ideale maschilista del cowboy informatico.
Eppure il panorama della scrittura sci-fi non è mai stato esclusivamente maschile, partendo dalla colossale Mary Shelley per arrivare a narratrici proto-cyberpunk come Thea Von Harbou, autrice del romanzo da cui nacque il film Metropolis (1927), J. Tiptree Jr o Joanna Russ con i loro rispettivi The Girl Who Was Plugged In (1973) e The Female Man (1975).
In Mirrorshades compare un seminale racconto di Pat Cadigan, autrice madre del cyberpunk, dal titolo Rock and Roll Never Dies. Al centro della narrazione c’è Gina, una donna nera di oltre quarant’anni, una scelta che dentro una raccolta carica di protagonisti eteronormati è già controcorrente, ma Cadigan non si limita a questo. Nelle opere cyberpunk classiche i personaggi sono soliti connettersi al cyberspazio tramite la socket technology, un sistema di prese di corrente impiantate nel corpo che tramite cavi si connettono al cyberspazio. Il gesto della connessione allude chiaramente a una penetrazione dell’hacker all’interno della matrice del cyberspazio: il primo è penetrante dunque maschile, la seconda è penetrata, dunque femminile. Cadigan mette da parte questo espediente narrativo inserendo una tecnologia chiamata tropismo: l’atto violento della penetrazione è sostituito con una connessione che avviene tramite l’aria.
Cadigan spalanca le porte a una serie di autricə non conformi, ə quali polemizzano e distruggono i canoni imposti nelle proprie narrazioni dando vita alla grande branca del cyberpunk conosciuta come feminist cyberfiction. La spinta viene accentuata dalla pubblicazione del Manifesto Cyborg (1991) di Donna J. Haraway, le cui teorie puntano alla distruzione della divisione binaria preponderante (uomo-donna, umano-macchina, materiale-immateriale).
Il corpo genderizzato e razzializzato è al centro della narrativa cyberfemminista e presto emergono opere come Trouble and Her Friends (1994) di Melissa Scott, in cui la canonica penetrazione dell’hacker viene pesantemente queerizzata: le protagoniste entrano nel cyberspazio tramite il brainworm, oggetto che penetra nel cervello fornendo un’esperienza materiale della matrice. Qui l’hacker penetra il cyberspazio e viene poi a sua volta penetratə da esso tramite il brainworm, fornendo un interessante concetto di compenetrazione queer. La cyberfiction femminista produce una serie di personaggi diversi e narrazioni meno pessimiste, in cui il rapporto con il corpo e le modifiche innestabili su di esso non assumono più una connotazione negativa, ma variano di opera in opera a seconda dell’esigenza autoriale. Lə nuovə protagonistə sono ben predisposte alla modifica artificiale, altro segno del superamento del binarismo.
Si approcciano al genere autricə di etnie diverse che vanno a costituire un’altra branca viva e pulsante, quella dell’afropunk e dei futurismi indigeni (termine utilizzato per la prima volta da Grace Dillon nel suo libro Walking The Clouds: An Anthology of Indigenous Cyberfiction del 2012). Ne è un esempio perfetto l’album musicale Dirty Computer (2018) di Janelle Monáe, nel cui video la cantante parla, attraverso la storia di un’androide bisessuale, dell’oppressione statunitense sulle persone afrodiscendenti, in particolare quelle queer.
Il cyberpunk è sempre stato un genere vicino alla volontà delle soggettività marginalizzate e non ha mai mancato di evolversi attraverso le narrazioni sempre più diversificate dellə autricə coinvoltə. In effetti, non sarebbe male imparare da loro come affrontare la distopia sempre più sovrapposta alla realtà in cui viviamo.
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