Con una presenza magnetica e un’energia che riempie la scena, Ella Bottom Rouge è una delle voci più riconoscibili e libere del burlesque queer contemporaneo. Performer, insegnante – fondatrice della Rouge Academy a Milano – producer e attivista, da oltre dieci anni porta avanti un’idea di spettacolo che unisce sensualità, ironia e consapevolezza politica. Per Ella il burlesque è un modo per imparare ad abitare la propria pelle, a riconoscere la propria forza, e a riscrivere il concetto di sensualità con il linguaggio della libertà.

ph. Theik Smith

Da quanto tempo ti dedichi al burlesque e perché hai scelto questa strada artistica?

Il burlesque è arrivato nella mia vita durante un viaggio di piacere a Londra, nel 2013. Non ne sapevo nulla, finché una sera mi sono ritrovata in un locale dove si stava svolgendo una battaglia di tassel twirling, l’arte di far ruotare i copricapezzoli sul petto o su altre parti del corpo. Oggi è una delle mie abilità più riconosciute, ma allora era qualcosa di completamente nuovo per me.

Ricordo che sul palco c’erano due performer con corpi che oggi definiremmo non conformi: donne voluttuose, curvy, con seni prosperosi naturali, pance morbide che esprimevano liberamente loro stesse con movimenti pieni di energia e gioia. Erano libere, sensuali e fiere. Guardandole, ho pensato: “Wow! Cos’è questa cosa? Voglio farlo anch’io, subito.”

Fin da piccola ho avuto un rapporto piuttosto sereno con il mio corpo e la mia sessualità, nonostante le insicurezze e le autocritiche tipiche dell’adolescenza. La nudità, per me, è sempre stata qualcosa di naturale, qualcosa che ti permette semplicemente di essere. La passione per il teatro e la recitazione, inoltre, mi ha portata a pensare che quella forma d’arte potesse appartenermi.

Tornata in Italia ho cercato corsi di burlesque (allora ce n’erano pochissimi), e ho intrapreso questo percorso. Una cosa tira l’altra, e piano piano sono arrivati i primi lavori. Da quel momento non mi sono più fermata.

Da dove deriva il tuo nome d’arte?

Mi chiamo Daniela Marrapodi. Mio fratello quando era piccolo non riusciva a pronunciare bene il mio nome, mi chiamava Gnella, e lə colleghə dell’azienda di intimo Londinese con la quale ho collaborato per molti anni mi chiamavano Daniella. Dall’unione di questi due aneddoti è nato il nome Ella. Bottom rouge è un’ode alle chiappette che diventano rosse, un piccolo erotico gioco ironico.

Il tuo burlesque ha un approccio gender free, tu parli di burlesque queer: cosa significa e da dove nasce l’idea di aprire il burlesque a tuttə?

Il burlesque nasce come ribellione al potere. Per evitare la censura, si mettevano in scena stacchetti che univano la nudità alla satira. In quest’arte l’erotismo si trasforma così in linguaggio di autodeterminazione, ironia e attivismo. Con il burlesque queer si vuole fare un ulteriore passo avanti: l’obiettivo è celebrare la diversità dei corpi, delle identità e dei desideri.

Io credo di aver sempre avuto uno sguardo molto ampio su ciò che faccio, e l’idea di aprire il burlesque a tuttə nasce proprio dall’ascolto della comunità. Ho cominciato a pormi delle domande: chi sono le persone intorno a me? Come stanno? Perché un’arte dovrebbe essere solo per alcunə?

Ascoltando alcune testimonianze di persone che già frequentavano lezioni di burlesque altrove, e che descrivevano le aule come poco inclusive, ho capito che mancava la rappresentazione. Ho costruito tutto partendo proprio da qui, dal basso.

ph. Mattia Attorre

Questo approccio è un valore aggiunto per l’autodeterminazione dei corpi o solo un’apertura a persone in passato escluse dal burlesque?

È decisamente un traguardo verso l’autodeterminazione dei corpi. Che il mio sia uno spazio safer lo raccontano le persone che lo attraversano: persone trans, corpi non conformi, persone che stanno affrontando un cancro, persone disabili.

Uno dei miei più grandi momenti d’orgoglio è stato durante un workshop nella mia scuola, tenuto da una collega: è arrivata una persona in sedia a ruote, amica di una mia allieva queer che le aveva parlato del nostro spazio come di un luogo senza barriere architettoniche. L’insegnante ha subito adattato la lezione, inserendo nella coreografia diversi tipi di movimento per rendere l’esperienza davvero inclusiva.

Per me, inclusione significa proprio questo: creare concretamente uno spazio accessibile a tuttə. Per tanti anni ho insegnato in un’altra scuola dove mi sono trovata benissimo, ma che purtroppo aveva problemi di accesso, c’erano dei gradini, e a un certo punto mi sono chiesta: come posso dire che è uno spazio inclusivo? Molte volte si abusa di questa parola, ma l’inclusione non è uno slogan, deve essere una pratica quotidiana.

Il burlesque è un’arte dove trucco, parrucco e brillantini sono protagonisti. Come concili questi elementi così teatrali con il messaggio di accettazione di sé, naturalezza, senza eccessive sovrastrutture? Non potrebbe essere un paradosso?

Uno spettacolo, come ogni forma d’arte, ha comunque delle regole. Questo però non significa che non si possano personalizzare o reinterpretare. È lecito rompere le regole, ma prima bisogna conoscerle e capire qual è la propria lotta, così come è fondamentale comprendere il contesto in cui ci si trova per mantenere lo spazio safe.

Da insegnante, so che rompere la norma non si può fare sempre né in ogni fase del percorso artistico. All’estero, per esempio, dove ho da poco concluso un’esperienza lavorativa, ho performato a New York insieme a un’artista non binary, female presenting. Questa persona indossava un intimo completamente trasparente. Era un locale storico, con una capienza di appena venticinque posti: nessuno ha fiatato. Mi ha fatto molto riflettere su quanto la percezione cambi da paese a paese. In Italia, purtroppo, la reazione sarebbe stata diversa: l’attenzione si sarebbe concentrata molto probabilmente sull’intimo trasparente, piuttosto che sul messaggio o sulla performance.

Quando l’identità artistica delle mie allieve non è ancora completamente definita, credo sia importante partire dalle regole che caratterizzano questa disciplina, per poi modellarle man mano che si acquisiscono sicurezza e padronanza.

ph. Mattia Attorre

Come vorresti che evolvesse il Burlesque?

È un tema molto caldo. Vorrei che nel burlesque ci fosse più attenzione alla sicurezza, sia sul palco che dietro le quinte. Come in ogni ambito lavorativo, purtroppo, esistono persone che non garantiscono un ambiente sicuro, e credo che su questo serva una presa di posizione più netta.

Mi piacerebbe che esistesse un organismo di riferimento capace di stabilire regole comuni e tutelare chi lavora in questo settore. Personalmente, cerco di fare la mia parte seguendo due direzioni: da un lato, sia con il mio staff che prima di ogni spettacolo, espongo sempre con chiarezza le regole da rispettare; dall’altro, ogni anno invio un questionario anonimo allə allievə, così che possano lasciare commenti e suggerimenti utili per migliorare continuamente lo spazio e renderlo sempre più safe e inclusivo.

Immagine in evidenza: ph. Anna La Naia