C’è un campo in cui il gruppo terroristico Stato Islamico eccelle ancor più che nelle violenze efferate: il marketing. Se il nazismo è stato l’applicazione delle migliori tecnologie dell’economia della produzione di massa al peggiore degli obiettivi, con quelle gigantesche ed efficienti fabbriche di sterminio che sono stati i lager, oggi l’organizzazione islamista dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi è l’applicazione delle migliori tecnologie dell’economia 2.0 nel settore della morte.
Diciamolo chiaramente, la mission del gruppo non ha niente di innovativo o di eccezionale, ma è l’ennesima riproposizione dei concetti scritti negli anni Settanta dal general brigadiere pakistano S. K. Malik ne Il concetto coranico della guerra, che hanno ispirato tutti i movimenti “jihadisti”: l’obiettivo è colpire il nemico nell’anima e lo strumento più efficace per farlo è il terrore, che “non è il mezzo per costringere il nemico a fare qualcosa, ma è in sé quello che vogliamo imporre”, scrive Malik.
Quello in cui l’organizzazione si dimostra davvero innovativa ed eccezionale è invece il marketing, a partire dalla scelta straordinaria del brand: “Stato Islamico” è un nome breve, facile da ricordare, ottimo da trasformare in hashtag, traducibile con facilità in qualsiasi lingua. E soprattutto impone una visione unica su una realtà estremamente variegata e divisa (sullo stile di marchi come “Forza Italia”, per capirci), riuscendo a lanciare un messaggio doppio: ai musulmani, “o siete con noi o siete contro voi stessi”; agli occidentali, “considerate come dei nostri anche questa signora col velo che spinge un passeggino al mercato della Montagnola”.
La strategia comunicativa è altrettanto raffinata. Il gruppo si dedica ad attività imperdonabili, ma tutt’altro che eccezionali (che vogliamo vederlo o no, di persone bruciate vive, smembrate, torturate e violentate purtroppo è pieno il mondo). La differenza la fa un lavoro da ufficio stampa impeccabile: l’organizzazione terroristica Stato Islamico confeziona materiali di propaganda di grande qualità tecnica (i video sono studiati come videoclip, con un’ottima sceneggiatura e regia, le riviste sono impaginate con precisione e tradotte in varie lingue, i tweet dimostrano una straordinaria dimestichezza con il guerrilla marketing) e sa che ai giornalisti basta servire il piatto pronto e loro ripropongono al proprio pubblico quella propaganda, senza modifiche sostanziali e senza riflessioni sull’opportunità etica del tutto – insomma, pubblicità gratis, in parole spicciole.
Chiaramente riconoscere la strategia “commerciale” del gruppo non significa considerare i suoi crimini più tollerabili o addirittura meno ingiustificabili, ma anzi dimostra quanto siano ancora più squallidi e meno romantici – e lasciamo stare il fatto che mi sfugge come qualcuno possa trovare qualcosa di romantico in un gruppo di assassini…
Prendiamo le ultime recenti vicende di omosessuali (o presunti tali) gettati da palazzi e massacrati dall’organizzazione terroristica in Iraq e Siria: sono tristemente un caso di scuola che racconta bene quanto il gruppo conosca i meccanismi della società dell’informazione e ne sappia sfruttare le debolezze.
Prendersela con degli omosessuali (più precisamente: mostrare di prendersela con degli omosessuali, perché di quei morti in realtà non sappiamo nulla se non quello che il gruppo Stato Islamico ci vuole far sapere) non dimostra solo una grande dimestichezza con la differenziazione dei target, con l’uso delle tecniche del marketing segmentato e del micromarketing, ma qualcosa in più. L’organizzazione terroristica sceglie bene le sue vittime: ha visto, ad esempio, che quando in Siria altri gruppi fondamentalisti hanno impiccato delle persone transessuali, appendendole per i seni, al mondo non è fregato niente. Le transessuali uccise, insomma, non sono granché “notiziabili”, come si dice. Meglio i gay: la caccia alle streghe di qualche tempo fa contro gli omosessuali in Iraq ha attratto un minimo di attenzione – un minimo, certo, ma meglio di niente.
Il grande passo avanti, però, è un altro: l’omicidio viene trasformato in spettacolo, con fotografie ad alta risoluzione su cui i media si gettano con la bava alla bocca, e in eventi virali, con la condivisione su infiniti account generati automaticamente. Il gioco è fatto, il prodotto è venduto, la clientela è accaparrata.
Ma cos’è di preciso il prodotto che vogliono imporci? Il terrore, certo. Per essere più precisi, un particolare tipo di paura, il cui nome è stato fatto coraggiosamente dalla intellettuale libanese Dalal El-Bizri: “islamofobia”, da intendersi in senso letterale e in senso duplice. I terroristi vogliono diffondere la paura dell’Islam; in Occidente, con la minaccia di attentati e di rapimenti, e nel mondo arabo-musulmano, con la “paura della morte, della messa all’indice, della prigione, della flagellazione, dell’assassinio, una paura intima, vicina, che necessita di una montagna di coraggio per cominciare a decostruire l’edificio pietra dopo pietra”, come scrive ancora El-Bizri. Con la paura di Allah al-Rahman (Dio misericordioso) trasformato in un idolo assetato di sacrifici umani.
Ora dobbiamo fare una scelta da consumatori consapevoli. Possiamo diventare clienti dell’organizzazione Stato Islamico, comprare il suo terrore, lasciarci colpire nell’anima, fare finta di non sapere che le prime e più numerose vittime sono musulmani, nelle terre devastate dal gruppo fondamentalista così come nei regimi petroliferi alleati dei nostri governi, costruire un muro di paura tra “noi” e “loro”.
Oppure possiamo rifiutare di consumare i prodotti dell’integralismo, ribellarci al terrore, usare il cervello invece della pancia, combattere per società libere e solidali per chi è nato qui e per chi ci è arrivato, per le coste a nord del Mediterraneo e per quelle a sud, al di là delle convenienze. E tendere la mano a chi sta, con coraggio e con rischio, cercando di smontare il muro della paura pietra dopo pietra.
A noi la scelta.
pubblicato sul numero 3 della Falla – marzo 2015
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