Una riflessione dopo Ripartire dal desiderio
Mentre scrivo queste righe sono al Sicilia Queer Filmfest. Fuori dal cinema ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, dove si svolge il festival, campeggiano i manifesti dell’edizione di quest’anno, la dodicesima: una serie di volti (incorniciati da rami di ciliegio in fiore, trasfigurati dall’estasi dell’innamoramento) di coppie… eterosessuali. Sono immagini kitsch, anni Cinquanta, potrebbero provenire da locandine cinematografiche ma sembrano una versione di fotografie stock di settant’anni fa per commercianti di cioccolatini. Non c’è niente di più banale o prevedibile di questi sorrisi di plastica. Eppure, associate alla parola “queer”, queste immagini sono due volte scandalose. Scandalose per la norma eterosessuale, perché smascherano la performance posticcia e artificiosa che questa stessa norma non può ammettere di essere. Ma anche scandalose per chi ritiene che il termine (e in generale gli spazi come quelli di un festival LGBTQI+) siano esclusivo territorio di coloro che dalla norma sono stati esclusi: un luogo protetto in cui esperire quella visibilità e quella normalità altrove precluse. La presenza dell’eterosessualità potrebbe sembrare un’invasione di campo, un’appropriazione indebita: cosa potrà mai esserci di queer nell’eterosessualità?
L’intento delle immagini è ironico e dissacrante, ovviamente, perché sono più camp di tanti film in concorso. Eppure guardandole mi viene da pensare anche a qualcos’altro, di più serio e forse più problematico: al fatto che tutta la sessualità è queer, perché il desiderio, al di là delle pratiche, delle identità, dell’adesione o meno alla norma sociale, ha il potenziale di pervertire la norma e di disintegrare l’identità. Come dimostrano queste immagini, niente della sessualità umana è naturale. Ovviamente bisogna però intendersi sui termini sessualità e desiderio, ed è questo che vorrei provare a fare.
Quando ho scritto Ripartire dal desiderio non ero convinta del titolo. Mi sembrava troppo affermativo (specie in tempi di ripartenze costantemente annunciate e costantemente deluse) e anche troppo limitato: si può ripartire da qualcosa di così personale in un momento in cui da un lato esperiamo costanti pressioni volte a farci interiorizzare la responsabilità individuale, e dall’altro la nostra possibilità di azione (in termini di autodeterminazione sessuale ma anche in termini politici) è così limitata? Ho espresso questi dubbi nel libro, ma ho trascurato di specificare cosa si intendesse con desiderio, cosa che ha originato alcuni qui pro quo. Un’espressione come “desiderio” sembra mettere al centro la sessualità invocando una specie di nuova rivoluzione sessuale. Questo sembrava escludere, mi è stato fatto notare, tutte quelle soggettività che rientrano nello spettro asessuale. Inoltre, mettere al centro la sessualità è una mossa guardata comprensibilmente con sospetto, perché è stato quello che ha sempre fatto la psicoanalisi, associata a torto o ragione con politiche normative e repressive. Parlare di desiderio, insomma, alludeva a due pericoli, paradossalmente opposti. Da un lato una liberazione non inclusiva, dall’altro una repressione generale. Rischi che parole d’ordine come “cura” o “solidarietà” non corrono, perché si appellano alla decisione morale dei soggetti, oltre che a una necessità dei soggetti vulnerabili, che comprendono spesso prima delle classi dominanti l’evidenza per la quale l’unione fa la forza. Il desiderio invece, diversamente dalla scelta etica, ci accade, e non si configura nemmeno come un progetto politico, come una strategia necessaria per i subalterni. Desiderare è una faccenda che riguarda tutti. Poi, naturalmente, dipende da cosa si fa di questo desiderio — come diceva Lacan, che sosteneva che non cedere mai sul proprio desiderio fosse l’unica indicazione etica possibile.
Cosa significa che il desiderio riguarda tutti, allora? Non sto parlando certo dell’attività sessuale, quanto piuttosto del desiderio come modo in cui si esprime l’inconscio, che è quanto ci sia di più accessibile del nostro corpo per la nostra psiche. Indipendentemente da cosa decidiamo di fare con il desiderio che proviamo, indipendentemente o meno dal fatto che questo desiderio si articoli verso un preciso oggetto sessuale, provare desiderio per qualcuno o qualcosa distrugge la nostra illusione di essere sovrani di noi stessi, di possederci completamente. Contro l’ideologia proprietaria su cui si basa il modo di produzione di cui facciamo parte e che plasma il nostro sentire, il desiderio ci possiede, ci ricorda che ci manca qualcosa, che non siamo isole, non siamo individui costretti ad accumulare e a proteggere quanto accumulato difendendoci dall’altro: al contrario, dipendiamo dall’altro per essere noi stessi. Dipendiamo da qualcosa che è fuori di noi. Non è nell’attività sessuale quindi (né eventualmente nel suo controllo) che si esprimono la sessualità e il desiderio, quanto piuttosto nella mancanza, nella frustrazione, nell’apprendere di non bastare a sé stessi, di essere limitati. Riconoscere un nucleo di verità nella sessualità non vuol dire plaudere alla performatività sessuale, anzi, esattamente il contrario. È proprio laddove il desiderio non viene immediatamente soddisfatto che si fa questa esperienza conoscitiva. Questo può implicare una ferita narcisistica, ma è solo in questa esperienza che ci si apre alle potenzialità della vita comune, e questa realizzazione può essere liberatoria e politicamente rivoluzionaria. Ho detto che può esserlo, non che lo è necessariamente. Certo sarebbe più facile che lo diventasse se non dovessimo confrontarci con i limiti che ci vengono imposti (penso al tempo che ci viene sottratto nel lavoro, all’ipoteca sul discorso esercitato dai media, alle ineguaglianze legislative, ai confini che ci inchiodano nei luoghi). Mi rimane però la convinzione che la disposizione migliore per lottare contro questi limiti sia proprio una disposizione desiderante, volta a perdersi più che a riconoscersi, a autodeterminarsi attraverso un percorso di scoperta relazionale, aprendosi al mondo piuttosto che trincerandosi nell’identità. «Come si liberano i corpi?» mi hanno chiesto poco tempo fa delle ragazze e dei ragazzi di un collettivo universitario dove ho fatto una presentazione. «Tanto attivismo, tanto discorso si concentra sul corpo, e in particolare sulla sessualità, come se fossero qualcosa di cui “riapproppriarsi”, da “reclamare”. Io invece vorrei che più che di una riappropriazione del corpo o della sessualità, si invocasse piuttosto un loro “esproprio proletario”» scrivevo in Ripartire dal desiderio. Era una provocazione, ma lo penso ancora: i corpi si liberano stando insieme.
CC: https://www.facebook.com/siciliaqueerfilmfest/photos
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