DOLORE MINIMO DI giovanna CRISTINA VIVINETTO

di Donatella Vinci

Dolore minimo, edito da Interlinea, è la prima raccolta di poesie della giovanissima Giovanna Cristina Vivinetto, da lei definita un romanzo in versi della propria transizione di genere. Considerato dalla critica un caso letterario, a neanche un anno dalla sua pubblicazione ha già ricevuto numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Cetonaverde Giovani, il Premio San Domenichino, il Premio Europeo Massa, il Premio Portovenere Lord Byron, e il Premio Senghor. Il tema della raccolta appare come una novità assoluta nel panorama della poesia italiana e possiede tutta la forza dirompente che l’effrazione di un tabù può sprigionare, e nonostante questo non rischia di coprire l’alto valore poetico dell’opera, presentandosi in modo inscindibile dalla poesia stessa.

La poesia arriva con la transizione, l’accompagna inevitabilmente, è parte di essa. Bisogna che il non noto, il non visibile, emerga affacciandosi alla coscienza. È il passaggio stesso a reclamare l’affiorare di un sapere inconscio: se si passa, si passa solo per la consapevolezza. La consapevolezza è quando ti puoi dire, è quando lo puoi raccontare, quando nominando le cose le metti al mondo, le fai finalmente esistere. Ed è come se Giovanna non avesse scampo, la parola che accompagna il suo passaggio può essere soltanto poetica. Solo la poesia possiede le immagini che ci fanno visualizzare l’invisibile. E allora il passo, che è ciò che ci allaccia alla terra come il respiro ci allaccia alla vita (penso a Chandra Livia Candiani), il passo che prima “aveva indugiato”, e la cui memoria riproduceva un movimento meccanico, involontario, un passo “distratto” (direbbe Candiani stessa) e cioè inconsapevole del suolo su cui poggia, diventa, in un’immagine grandiosa di Giovanna, un passo capace di rivoltare le zolle.

Ci sono già la morte e la vita in questo dissodare, in questo ribaltamento del sotterraneo, che scoperchia sepolture e prepara la terra a farsi di nuovo genitrice. Un passo così, non può più continuare a rimarcare le linee geometriche, l’esatta scacchiera delle vie del paese, è un passo che “rompe gli incroci”, sfuggendo tragicamente dal senso religioso dell’inviolabilità dei riti stabiliti, prescritti dalla comunità. C’è una vita costretta, qualcosa che gli altri, in preghiera, trattengono nell’atto di tenere le mani giunte: è questa vita che preme per uscire, per essere liberata e manifestarsi in tutta la sua forza, perché, come diceva Audre Lorde, reprimere una verità vuol dire conferirle il potere di devastare. Scrive Giovanna: “E quel mostro che in tanti anni / avevo allontanato, fu assai più / docile quando, abolite le catene,/ lo presi infine per mano.” Solo in questo modo, liberando se stessi e le proprie energie vitali dalla prigione e dai condizionamenti dell’oppressione sociale e famigliare, il dolore, che è una condizione ineliminabile dello stare al mondo, come ineliminabili sono i conflitti da cui viene generato, può diventare “minimo”.

E così le immagini poetiche dispiegano tutto il racconto della liberazione/transizione. Dita che tamburellano sul tavolo, o su un volto, ci ripetono quasi ossessivamente che non si scappa dalla materia, ci ancorano alla concretezza del reale. Persino i sentimenti traspaiono come “voglie screziate” sulla pelle, perché è il corpo in tutta la sua fisicità a essere il protagonista di questa narrazione. Ma è proprio la compiutezza del corpo, sono i suoi limiti oggettivi, a far esplodere la necessità dello sconfinamento. È nella mente prima che nella carne che si compie la transizione: quando una mano è abitata da un mutato sentire e sapere, la sua natura subisce un cambiamento intrinseco. Il corpo transita in un flusso continuo di perdite e acquisizioni che trasformano la sua vera essenza molto prima del bisturi. “Non ho ovuli da spargere per il mondo” scrive Giovanna parafrasando senza troppa ironia i versi di una perennemente ironica Patrizia Cavalli (sorprende piacevolmente veder citata una poetessa lesbica di altri tempi da una giovanissima poetessa trans): eppure il suo corpo che transita è madre, madre assoluta nel proprio autogenerarsi. E nello stesso tempo è padre, figlio e figlia appena nata. Lo sconfinamento della propria corporeità sta tutto nell’agire l’illimitato potenziale creativo e performativo della mente.

Il racconto di una transizione di genere, in un contesto di arretramento culturale come quello italiano, corre il serio rischio di straniare il lettore comune, ed è qui che la capacità poetica non comune di Giovanna interviene a compiere il miracolo: chiunque si ponga in ascolto poetico dei suoi versi percepisce come la transizione che viene raccontata riesca a metaforizzare una condizione umana universale, perché ogni essere vivente è il prodotto di numerose nascite e morti, e affronta nell’arco della sua vita passaggi e transizioni cruciali.

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