OMONORMATIVITÀ VS BATTAGLIE QUEER

di Irene Pasini

Qualche giorno fa su un blog LGBT+ statunitense è stato pubblicato un interessante articolo intitolato Il movimento gay tra 50 anni, nel quale ci si immaginava un futuro di coppie omosessuali felici, sposate e con tanti bambini biologici e un presidente degli Stati Uniti dichiaratamente omosessuale; in questo immaginario idilliaco, le battaglie e i Pride non erano più una necessità, i diritti sociali erano finalmente stati raggiunti.

Le persone transgender e queer, come quelle poliamorose o a-gender sembravano essere sparite dalla fotografia delineata dall’articolo, fagocitate da una visione decisamente omonormativa. Il blog ha esplicitato senza rendersene conto il passaggio dai ruoli di genere che la cultura eterosessuale impone da sempre, a quelli che la comunità LGBT+ si è mano a mano autoimposta. Dall’eteronormatività – che descrive come si assuma e si promuova l’idea che l’eterosessualità sia l’unico orientamento “normale” e “naturale”, privilegiando così coloro che si adeguano alla norma e considerando chiunque ne sia al di fuori come anormale e “sbagliato” – ha infatti origine l’omonormatività – che aprendo ad una piccola variazione di orientamento sessuale “alternativo”, mantiene una struttura binaria e normativa in tutti gli altri aspetti identitari. Questo passaggio raramente viene riconosciuto come un problema, delineando come parte della comunità voglia effettivamente essere considerata membro della cultura dominante e mainstream, e descrivendo il modo in cui la nostra società premi coloro che vogliono farne parte, considerandoli i più degni di meritare visibilità e diritti.

A mano a mano che cambiano gli atteggiamenti della società riguardo alle relazioni omosessuali, assistiamo ad un aumento di rappresentazioni di persone LGBT+ nei media, anche se questa rappresentazione è incredibilmente limitata. Da serie tv come Modern Family a The New Normal, a personalità della tv come Ellen DeGeneres e Neil Patrick Harris, le voci a cui si dà spazio e visibilità sono di solito quelle di una particolare classe sociale, di una particolare espressione di genere e di una particolare etnia.

Questa operazione di facciata viene fatta anche nel racconto dei movimenti per i diritti queer, arrivando a dei veri e propri falsi storici (primo fra tutti il recente film Stonewall), descrivendoli come se fossero stati guidati per la maggior parte da uomini bianchi, mascolini e cisgender, con l’eliminazione delle persone trans e delle persone di colore.

L’emblema di tutto questo è la lotta per il diritto al matrimonio, divenuto infatti il tema principale degli ultimi quindici anni di movimento: ciò ha presupposto, sin dall’inizio, l’esigenza che tutte le relazioni debbano imitare lo standard eteronormativo di sessualità e struttura familiare. Promuovendo quindi l’idea che tutte le persone vogliano emulare le coppie monogame etero ed escludendo come inaccettabili altre strutture di relazioni, come quelle poliamorose o coloro che non vogliono sposarsi, mantenendo salda la linea di confine di quella che è una “relazione accettabile”. Tra il movimento mainstream – che la questione “omonormatività” la ignora – e una parte della comunità queer che invece lo critica e ci si scontra, c’è però una forte componente che nella consapevolezza decide di abbracciare la normatività e di farne strumento politico, in cui le battaglie associative si basano su priorità e compromessi.

Per quest’ultima componente riprodurre la cultura normativa e binaria è un giusto compromesso per ottenere l’accesso a diritti come il matrimonio egualitario o il cambio dei documenti per le persone transessuali. Sfidare le istituzioni sociali, rivoluzionare l’approccio alla vita sentimentale e sessuale e negare il binarismo culturalmente imposto sarebbe un approccio complicato e difficile da far digerire, impedendo l’ottenimento dei diritti “basilari”. A questo riguardo bisognerebbe però forse analizzare meglio cosa intendiamo con “basilare”: alla base di che cosa troviamo, la monogamia, la polarità femminile-maschile e l’istituzione di fedeltà e famiglia tradizionale, se non nell’eteronormatività stessa? Come è avvenuta l’assunzione di questi principi proprio all’interno di una comunità che portava inclusività, libertà sessuale e autodeterminazione contro le norme sessuofobiche e sessiste della società?

L’impressione è che in parte la comunità abbia perso, conseguentemente alla memoria storica, la capacità critica e la forza di continuare a battersi per tutte e tutti senza priorità; invece di decostruire un sistema culturale dalle fondamenta, si è scelto di prendersi un piccolo spazio all’interno di esso, scendendo a patti e accogliendo costrutti obbligatori per poterci stare. Più facile e, senza alcun dubbio, con dei risultati evidenti, ma chi stiamo lasciando fuori, senza possibilità di recuperare? Qualche giorno fa al consiglio nazionale di una delle associazioni cosiddette LGBT+ il segretario ha chiesto ai propri consiglieri quali potessero essere i passi successivi per la comunità, considerato che le Unioni Civili erano passate e che per il matrimonio si sarebbero dovuti aspettare i consueti due o tre anni “politici”. Non è un segnale evidente che la metodologia delle priorità con il suo new normal conciliante, più che posporre le altre questioni, ce le stia facendo sistematicamente dimenticare?

pubblicato sul numero 20 della Falla – dicembre 2016