INTRECCIARE PASSATO E PRESENTE NELLO SPIRITO DELLA RIVOLUZIONE

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Come prologo del mio articolo, voglio condividere con lettrici e lettori la mia profonda emozione nel riportare, come testimone, una preziosa esperienza di movimento, personale e collettiva, che non si è mai chiusa; essa continua a trasformare il presente perché noi siamo soggetto politico in divenire. Al di là di flussi e riflussi, di tutte le scontate contraddizioni, dei posizionamenti con le loro relative retoriche, lo Spirito di Stonewall non si è mai interrotto. Dalla rivolta del ’69, da quelle precedenti e le altre successive, fino alla nostra odierna insubordinazione, quello spirito si inscrive a tutti gli effetti in una pratica di Resistenza. Resistere alla deriva fascista, alla crisi che acceca l’intelletto, al razzismo e ai troppi attacchi alla nostra dignità che, sia ben chiaro, non sono mai cessati, è e deve essere pratica quotidiana, non semplice risposta di routine.

Quando le nostre sorelle trans, travestite, drag si ribellarono, ruppero/interruppero un meccanismo antico che ci vedeva passive nel subire la violenza dell’ordine costituito. Quello stesso sistema che, sotto l’onda delle proteste trasversali che attraversavano il mondo, vedeva invertirsi quei rapporti di forza consolidati che gli permettevano di tenerci mute e passive. Quelle proteste spontanee partivano dai bisogni, erano intersezionali perché vedevano diverse categorie accomunate da un’unica grande battaglia: cambiare il mondo! E piaccia o no, in parte il mondo lo abbiamo cambiato, quanto meno abbiamo cominciato a farlo, e non è finita! Do it, resta testo e slogan della magnifica rivoluzione.

In questo mezzo secolo di storia gaia, si è cercato di mettere insieme i tasselli di un mosaico che la cultura dominante aveva scompaginato, impresa molto difficile per diversi motivi. La narrazione che da lì è partita e si è costruita, resta quella omosessuale maschia occidentale, con il suo proprio punto di vista che definirei privilegiato. I narratori purtroppo stentano a vedere oltre quella particolare prospettiva di osservazione, fanno fatica a sentire l’altro e l’oltre che gli urla affianco, che rivendica la propria dignità, il proprio posizionamento, che non è affatto scontato coincida con il loro, anzi. Questo passaggio fondamentale nella comprensione dei fatti, sintetizzato al massimo, continua a sfuggire ai soggetti privilegiati – c’è sempre qualcuno più a Sud -, il che non facilita affatto il processo di trasformazione dello stato delle cose.

L’impresa più difficile resta quella di intrecciare passato e presente, trovare i nessi storici e politici che permettono di attualizzare la storia, smarcandosi dalla noiosa contrapposizione tra nostalgici e realisti: la nostra Storia è unica, ha un prima e un poi, ha un presente, soprattutto ha un futuro con tutti i suoi meravigliosi risvolti che spetta a noi tutte sapere intrecciare… Sagesse oblige!

Si è da tempo incardinata una logica narrativa tendente a creare una demarcazione netta tra un prima caratterizzato da infantilismo rivoluzionario improduttivo e un dopo di serietà politica produttrice di diritti. La stessa demarcazione tra realisti e sognatori o, in ambito gaio, tra le baffe e quelle col tacco a spillo. Nonostante io appartenga alle sognatrici col tacco a spillo, resto contraria a questa visione dicotomica, a mio avviso strumentale e distruttiva, propendo piuttosto per la Resistenza produttrice di senso, il nostro! A causa di logiche perverse, compromessi o giochi politici, spesso la lotta per i diritti non coincide esattamente con la produzione di senso, che resta un filo logico di coerenza che nel tempo produce le vere vittorie.

A ben guardare, la Realpolitik, almeno in Italia, non ha sortito grandi vittorie in termini di diritti e opportunità, e se la montagna ha prodotto il topolino, è stato dovuto più alle pressioni (c’è chi le chiama ingerenze) europee che alla trattativa politica. Le sognatrici, al contrario, continuano a produrre sogni che, nella latrina in cui siamo finite, ci permettono di tenere la testa fuori dai miasmi per riuscire ancora a pensare un mondo più bello.

Del resto, leggendo e rileggendo la storia, emerge molto chiaramente che i detentori del potere, in qualsiasi tempo e luogo, non abbiano mai elargito o concesso nulla di propria spontanea volontà, quanto piuttosto per difendersi da minacciose (per loro) rivendicazioni dal basso. Che le si chiami rivolte, moti o insurrezioni, esse hanno sempre e comunque rivoluzionato lo stato delle cose. «La Rivolta ripaga, Do it» potrebbe essere il manifesto del radicalismo rispetto alla strategia della trattativa propria del riformismo. Nei miei 45 anni di militanza (gaia, trans, movimentista) ho assistito con amarezza alla perdita progressiva della capacità di risposta da parte del movimento LGBT+, allo svaporamento di quella sana incazzatura, arma di risposta di ogni categoria insultata. Narcotizzate da un benessere apparente quanto passeggero, chiaro ai nostri denigratori ma molto meno a noi che, melense, ci siamo assopite sugli allori. Impigrite dalla delega, alquanto improduttiva, che ci sottraeva al nostro essere spina nel fianco della politica, che, ricordiamolo, resta la vera ragion d’essere dei movimenti. Affermazione imbarazzante la mia, ma reale e profondamente coerente alla pratica della Resistenza.

Dalla Rivolta di Stonewall del 28 Giugno 1969 nasce il nostro orgoglio, la grande festa della Liberazione di tutte noi! Riusciremo, mi/vi chiedo, a creare da quel favoloso moto di orgoglio un discorso e soprattutto una pratica di senso che vada al di là degli asfittici orticelli che negli anni hanno sfiancato la nostra storia? La risposta non devo darla io, ma tutte noi… Favolosamente! Mi si conceda di intrecciare alcune mie riflessioni riportate in Antologaia con altre riprese da L’aurora delle trans cattive come favoloso finale:

«Pian piano la nostra cultura, quella dei tempi, introiettava la necessità del controllo sociale sui corpi e, senza rendercene conto, si entrava nella società della prevenzione dove il corpo è medicalizzato, monitorato, virtualizzato […]. Quella rivoluzione sessuale scoperta in Paradise Now allo Studio Uno Underground […] entrava in clandestinità. Lo sforzo maggiore resta quello di trasmettere il senso e l’anima di quella rivoluzione perché ai più resta ignota. Per me che ho vissuto quella fase è difficile capire oggi l’immobilismo di gay, lesbiche e trans nei confronti dei violenti attacchi dei nostri vecchi nemici»  (Antologaia).

«La nostra esasperazione ci ha fatto battere i piedi esattamente dove era giusto che battessero. Li abbiamo battuti forte con i nostri tacchi a spillo, le cui impronte restano indelebili, sono segni essenziali nella storia della liberazione, sono il simbolo stesso del Pride – del nostro Pride, non di quello estraniante, svuotato di senso – che ci viene sottratto […].Il Mit, dopo infinite peripezie attraverso una complicata burocrazia, era riuscito a riannodare i fili, portando a Bologna e successivamente a Roma Sylvia Rivera, una delle protagoniste della storica rivolta di Stonewall […]. Fu una lotta contro il tempo per riuscire a farle giungere puntuali alla nostra settimana trans denominata “Transiti” e soprattutto al World Pride che si svolse a Roma il 7 luglio di quell’anno (il 2000, ndr). Dopo aver trovato i soldi per viaggio e soggiorno dovemmo trattare con le autorità federali e con gli uffici competenti per ottenere documenti, permessi. E poi? Poi, paradossalmente, alla grande kermesse mondiale gli organizzatori non volevano farla parlare dal palco perché il protocollo non lo prevedeva. Soprattutto non lo prevedeva la loro abissale ignoranza: non sapevano chi fosse Sylvia, cosa fosse il Pride, soprattutto non riuscivano a inserire Sylvia in una costruzione di senso. A dire il vero la sciatteria gay non si era neanche accorta della presenza in Italia di colei che solo dopo morta fu riconosciuta come simbolo stesso della liberazione. (L’aurora delle trans cattive).

Con Amore, Porpora

Pubblicato sul numero 46 della Falla, giugno 2019