Un fil rouge tra queer e opzioni alimentari non carnivore

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Nel film satirico del 1999 But I am a cheerleader la 17enne Megan, che si identifica come etero, viene spedita in un campo di terapia riparativa per adolescenti omosessuali. Tra le prove indiziarie di lesbismo, considerate inconfutabili dai suoi stessi genitori, c’è il suo vegetarianesimo.

Che le lesbiche siano vegetariane o vegane è uno stereotipo tra i più noti sul e nel mondo LGBT+. Pur essendo, come tutti i luoghi comuni, una forzatura, affonda le sue radici in solide basi storiche e politiche. Il lesbismo politico e il femminismo hanno storie intrecciate, e il valore dato al non mangiare carne è uno dei molti punti di contatto. Almeno per quanto riguarda il mondo anglosassone, il legame tra femminismo e vegetarianesimo si fa risalire alla seconda metà dell’ottocento, in coincidenza con le prime rivendicazioni per il diritto di voto. Facendo un balzo in avanti, arriviamo ai primi anni ’70 del Novecento: “Nel contesto delle proteste contro la guerra in Vietnam – afferma The Encyclopedia of lesbian histories and cultures – molte femministe e lesbiche videro una dieta pacifica, vegetariana, come una controparte privata alle loro posizioni pubbliche di non violenza”. The oedible complex, di Carol Adams, fu, nel 1975, il primo saggio lesbo-femminista a documentare una storia di vegetarianesimo delle donne, e a suggerire un legame tra la violenza maschile e una dieta basata sulla carne.
Il libro The sexual politics of meat, di Carol J. Adams, si concentra proprio sul legame ideologico tra il dominio maschile nella società e il consumo di carne, partendo dalla considerazione che “il patriarcato è un sistema di genere che è implicito nelle relazioni umani/animali”. Pubblicato nel 1990 dopo una gestazione quasi ventennale, continua a essere stampato in sempre nuove edizioni, e ha influenzato molto il pensiero successivo.

Senza pretesa di essere delle teoriche, le riot girls Bikini kill cantavano nel 1994: “Eat meat, hate blacks, beat your fuckin wife. It’s all the same thing”.
Se, dunque, il legame tra vegetarianesimo e lesbo-femminismo è storicamente assodato, non altrettanto si può dire delle altre soggettività che compongono l’acronimo LGBT+. Ci è voluto l’avvento delle teorie queer – che, ricordiamo, partono dai primi anni ’90 – perché alcuni attivisti sconfinassero dal campo più specifico della performatività sessuale, alla considerazione che il tema principale del queer è, a qualche livello, la destabilizzazione dell’idea di natura, e che ciò si lega anche al rapporto che gli esseri umani hanno con gli animali. Anche perché l’antispecismo, pensiero filosofico alla base del veganismo, è accusato spesso di promuovere un comportamento innaturale, cioè non mangiare cibi da fonti animali. Spostando il discorso dalla supposta naturalità su un altro piano, quello che interessa all’antispecismo è che cosa è giusto e cosa sbagliato. O, ancora su un altro piano, la relazione che si instaura tra esseri umani e animali. Se ne sono occupati, negli ultimi anni, due testi: Manifesto queer vegan, di Rasmus R. Simonsen, e Corpi che non contano: Judith Butler e gli animali, curati entrambi da Marco Reggio e Massimo Filippi.

Un grande potenziale queer nella scelta vegetariana/vegana si mostra con particolare forza nella retorica che vede legata la virilità all’essere predatori e al consumare carne. L’uomo vegano assume su di sé un sospetto di scarsa virilità, e quindi di omosessualità: “Ma non sarai mica frocio?”. Purtroppo alcune campagne di associazioni animaliste, come l’americana Peta, o anche solo i banali gruppi vegani Facebook, invece di far esplodere questo potenziale queer, mirano a rassicurare sull’aderenza alle norme binarie di genere e sulla virilità, persino pubblicizzando il miglior sapore dello sperma. In definitiva, oltre alla destabilizzazione che deriva dal mettere di fronte le persone al rimosso collettivo della realtà degli animali allevati, uccisi e macellati, come se non fossero esseri senzienti e capaci di soffrire, c’è anche quella di turbare le persone rispetto alla centralità della propria eterosessualità. Il mondo è senz’altro ancora governato dal patriarcato, ma la maschilità è sempre più fragile: basta rifiutarsi di mangiare una bistecca per metterla in discussione.

pubblicato sul numero 34 della Falla – aprile 2018