Il reddito sembra essere uno dei più grandi paradossi del contesto politico attuale. Nonostante sempre più persone vivano in condizioni di precarietà economica, quindi esistenziale, il dibattito e la lotta politica per il reddito sono condotti all’interno di movimenti e di gruppi sociali ancora molto ristretti rispetto all’entità del fenomeno.

Una situazione principalmente determinata, a mio avviso, da un’oggettiva difficoltà per l’opinione pubblica di districarsi all’interno di un dibattito il più delle volte troppo tecnico o troppo massimalista. Esistono decine di proposte, solo per citarne alcune: reddito di cittadinanza, reddito di dignità, reddito di esistenza, reddito minimo garantito, reddito di base incondizionato, etc.

Senza girarci troppo intorno, il problema politico di fondo credo rimanga il non essere ancora riusciti a far capire al “pubblico mainstream” che nel sistema economico attuale lavoro e reddito non possono essere più legati, dal momento che il sistema capitalistico contemporaneo ha messo a valore tutti gli aspetti della vita “dal (pre) culla alla bara”. Per questo, misure di sostegno al reddito per tutt* dovrebbero essere l’assoluta priorità di lotta per qualsiasi soggetto politico.

È imprescindibile, infatti, mettere in discussione, come prima cosa, il binomio lavoro-reddito e affermare con forza che il lavoro dipendente non è più il solo modo di creazione di ricchezza, né il solo tipo d’attività il cui valore sociale deve essere riconosciuto.

Se pensiamo al lavoro di cura, ad esempio, la discussione assume una lampante chiarezza.

Il tasso di occupazione femminile in Italia pari al 49%, rispetto al 60% della media europea, dimostra che la partecipazione al lavoro delle donne è ancora fortemente condizionata dalla necessità di adempiere a un ruolo riproduttivo e di cura che non riceve alcun valore economico. Da tempo numerose femministe denunciano la tendenziale gratuità del lavoro che caratterizza la produttività sociale contemporanea. Gratuità che assume sempre più carattere generale, visto che aumenta la schiera di lavoratori di tutti i sessi che lavorano e producono valore senza essere retribuiti.

È evidente che le attività al di fuori di un rapporto di mercato non ricevono il giusto valore sociale, nonostante in molti casi siano aspetti fondamentali per l’esistenza. Meg Wesling, in particolare, esorta a “distinguere il lavoro affettivamente necessario dal lavoro socialmente necessario, vale a dire dal minimo lavoro necessario al lavoratore/lavoratrice per riprodurre se stesso/a”. Il “lavoro affettivamente necessario” include tutte quelle attività che hanno lo scopo di dare al corpo piacere, benessere e che dovremmo riconoscere come lavoro. Ancora Wesling, “la riproduzione obbligatoria del genere va intesa come una forma di lavoro che produce valore, sia materiale che sociale” e “questo lavoro è valorizzabile nella misura in cui il soggetto genderizzato si sottomette “liberamente” all’imperativo di questo lavoro continuo e ne considera il prodotto – l’identità di genere – non come una imposizione dall’esterno ma come qualcosa che ha origine nella sua interiorità”. Le relazioni affettive e sessuali sono, infatti, a pieno titolo parte di un quadro di commerci e di relazioni economiche.

In questo contesto, donne, gay, lesbiche, trans, frocie oscillano da una condizione di invisibilità e di discriminazione a una di sfruttamento proprio in virtù del proprio genere, quando si dimostra funzionale alle esigenze di mercato. Ad esempio gay e lesbiche rappresentano la forza lavoro ideale per tutte quelle aziende che vogliono limitare il più possibile i costi derivanti da maternità e dai congedi parentali. Inoltre, tutte quelle soggettività che non rientrano nei modelli di identità sessuale accettati dal mercato rischiano un’inevitabile emarginazione sociale, in molto casi resa ancora più drammatica dal rifiuto della proprio famiglia di origine.

Per questo motivo, donne, gay, lesbiche, trans, frocie dovrebbero, non solo essere in prima linea, ma anche creare un fronte di lotta comune per un reddito per tutt*, in quanto strumento con cui poter esercitare a pieno i propri diritti e dare sostegno alle possibilità di autodeterminazione della persona. Una caratteristica importante del reddito dovrebbe essere l’incondizionalità, perché solo essa potrà preservare quelle attività che traggono tutto il loro significato dal solo fatto che non sono compiute in vista di qualcos’altro o inserite in una logica di mercato.

Al momento, l’assenza di condizioni per il reddito è una visione minoritaria e fortemente ostacolata perché un reddito di base il più incondizionato possibile rappresenterebbe uno strumento di autodeterminazione e di autonomia di scelta e di vita, che aprirebbe spazi per possibili forme di produzione e autorganizzazione, al di fuori dell’ambito capitalistico.

Il nostro contesto sociale e politico è ancora ben lontano dall’assumere la consapevolezza dell’urgenza del reddito per tutt*. Un esempio eclatante sono le dichiarazioni di Susanna Camusso, segretaria generale della CGIL durante l’ultima edizione del Festival dell’Economia di Trento a inizio giugno, in cui ha ribadito la posizione del sindacato contro il reddito minimo: “Reddito minimo? Il vero tema è la piena occupazione… Penso che il tema sia il lavoro e la piena occupazione, quindi le risorse vanno investite nella costruzione di lavoro e libere scelte delle persone”.

Mentre, la gran parte dei pochi partiti politici italiani che hanno affrontato il tema è ancora alle prese con proposte, oltretutto ferme da tempo in Parlamento, per un reddito minimo garantito per disoccupati e per chi vive sotto soglie di povertà.

Il problema reale nel nostro paese, come evidenzia Cristina Morini, è ancora “quello di portare in piena luce e di far pesare politicamente l’intreccio fra lavoro pagato e lavoro non pagato, di introdurre nuovi concetti di interrelazione, inventando e imponendo nuovi indicatori di valore, nuovi meccanismi di valutazione della ricchezza..occorre sforzarsi di indagare per dare forza alla richiesta del reddito (bioreddito) come “contromisura” che non va più definita come redistributiva ma è eminentemente distributiva del nuovo e più ampio valore estratto dalla potenza della vita (affetti; cura; attenzione; relazione; dono di sé; rappresentazione di sé).”

Le reti transfemministe queer lavorano da anni in questa direzione ragionando su quali pratiche politiche possano sostenere questo tipo di lotta. É giunto il momento di provare ad allargare questo fronte, in primis, a un maggior numero di movimenti femministi e LGBT+ per procedere insieme a coinvolgere altri gruppi sociali nella battaglia per il reddito incondizionato per tutt*.

Abbiamo, quindi, la responsabilità e l’urgenza di trovare pratiche politiche e forme di comunicazione efficaci per rivendicare la necessità di slegare il reddito dal lavoro, se vogliamo costruire una società in cui essere davvero tutt* liber* di scegliere come vivere.

pubblicato sul numero 17 della Falla – luglio/agosto/settembre 2016