di Susanna Silicati

I viaggi in treno sono fatti per pensare. Una parentesi forzata, scomoda, che ti inchioda a te stessa per le due ore necessarie a fare ritorno un fine settimana al mese e abbastanza lunghe da lasciar girovagare la mente verso lande poco frequentate.

Un tempo non temevo quelle lande. Viaggiavo cullata dal brusio della ferraglia e da quel po’ di nostalgia che presto si sarebbe dissipata. Pensavo che Jesi fosse della dimensione ideale per vivere: 40.000 modesti abitanti, non una caotica metropoli che ti fa sentire sola, né un borgo che ti imprigiona con le sue antiche mura medievali. Pensavo che vent’anni fossero un’età ragionevole per permettersi di affermare di conoscere la città in cui si è cresciuti, allo stesso modo in cui si conosce se stessi; mai commesso errore più grande: ero estranea a entrambe. A differenza di quella che provo ora, era un’estraneità inconsapevole, frutto di un’ingenuità innaffiata negli anni dalla mia famiglia, dalle compagnie che mi ero scelta e da quei film che avevo visto, pochi e ben selezionati, dove la ragazza lesbica non finisce per suicidarsi.

Pensavo che Jesi e l’omosessualità girassero a braccetto per il corso, magari ancora inesperte e sprovvedute, insieme alle dodicenni che indossano il primo eyeliner e ai ragazzini dinoccolati. Ma le vasche sono appannaggio di chi sa nuotare, non di chi è zavorrato dal peso vergogna; anche se la zavorra non è tua, ma di chi vorresti accanto mentre impari a nuotare, non puoi liberartene con una bracciata. Quando l’ho riconosciuto, ho capito che il demone della vergogna – con le sue sembianze vampiresche e la voce di David Thewlis – non si diletta soltanto a tormentare gli adolescenti dalla bocca grande intenti a valicare la pubertà, ma è di famiglia anche tra i parenti di una ragazza innamorata della propria compagna di classe.

Allora, sul treno, penso se ne valga la pena. C’è odore di fumo, di stanchezza, di un’arancia sbucciata dalla signora di fronte a me, e di una sottile angoscia che sale con lo scandire delle stazioni. Perché la bilancia ha parlato, sussurrando ai miei pensieri che non vale la pena di rischiare di annegare, meglio una doccia, di una vasca. Allora, proseguo il resto del viaggio cercando di non pensare più, immaginandomi abbracciata dalle onde del mare che passa sotto il mio sguardo.

“Siamo in arrivo-a-Jesi” e dal finestrino si vede salire una foschia che conduce un testa a testa con quella emiliana appena lasciata; camminando sulla banchina, me la sento aderire addosso fino a esserne ricoperta. È una patina sottile e fastidiosa, come quella di menzogne e omissioni in cui mi sono delicatamente avvolta, che isola come una pellicola plastificata e, come questa, non si vede. La pelle traspira a fatica, trovo rifugio nelle sole carezze che sono in grado di toccarla a nudo. La situazione è temporanea, mi dico, perché, un giorno, Jesi potrà essere bonificata, potrà imparare a nuotare. E perché c’è un treno in partenza lunedì mattina.

pubblicato sul numero 41 della Falla, gennaio 2019

immagine realizzata da Mara Santinello