L’impatto di una diagnosi

Per le gemelle Valeria e Federica c’è stato lo sfiorare insicuro del primo amore, lo schiaffo della malattia, la mano certa dell’amore maturo. Finita l’adolescenza, viene diagnosticata a entrambe la miopatia Gne: una rara malattia che porta alla degenerazione del tessuto muscolare fino alla totale perdita di forze dello stesso. Dopo anni di lotta per l’accettazione di sé e degli altri – tramite le associazioni e grazie a Ali di porpora, il blog delle due sorelle – ci spiegano qual è il peso delle carezze nelle loro vite e quanta strada ancora si debba percorre sul sentiero dell’autodeterminazione.

La prima volta che ti sei innamorata? E l’ultima?
F: Riflettendoci adesso, la prima volta avevo 16 anni, era una mia compagna di classe. Ma lasciai passare tutto e mi fidanzai l’anno dopo con un ragazzo. L’ultima volta è stata un anno fa; la questione della mia sessualità era già chiara da tempo.
V: La prima volta avevo 19 anni. Vivevo il rapporto con insicurezza, basavo tutto sulla fisicità. L’ultima volta avevo 22 anni e mi era appena stata diagnosticata la malattia. Non potevo fare più affidamento sul mio corpo, o almeno così credevo, e ho dovuto iniziare un percorso di accettazione. Sono ancora innamorata.

La diagnosi ha segnato un prima e un dopo netto nella vostra vita sentimentale?
F: È stato un lento evolversi: il degenerare della malattia e ciò che il nostro corpo poteva fare ci ha portato ad avere ogni volta delle necessità diverse, quindi ogni volta a cambiare il nostro modo di rapportarci all’altro.
V: Sì, è accaduto in modo graduale. Il mio ragazzo mi ha spinta a mettere i tutori, anche d’estate, quando si vedevano. Mi incoraggiava a portare il bastone quando fingevo di dimenticarlo a casa, poi a prendere la sedia a rotelle. La malattia non è mai stata un problema e anche adesso, quando dimostro qualche insicurezza, lui mi ripete che non la percepisce come un peso.

Le persone che vi stavano accanto sono rimaste anche dopo la diagnosi e con l’aggravarsi della malattia?
F: Il ragazzo con cui stavo quando ho ricevuto la diagnosi non l’ha presa benissimo, e riflettendoci adesso, meglio così! All’inizio pensavo che sarebbe stato più difficile trovare qualcuno che accettasse la mia malattia, soprattutto perché neanche io ci riuscivo. Spesso ci sono cose che non fai più per paura, come viaggiare: la mia ragazza mi spinge a farle. Ho capito che chi rimane è perché vuole restare e chi va via è perché deve. E non è che c’entra sempre la malattia: se ho un carattere di merda, ce l’ho indipendentemente.
V: Sì, la malattia spesso velocizza cose che sarebbero accadute in ogni caso, prima o poi.

Cosa trovi attraente di te stessa? E cosa negli altri?
F: Ancora mi capita di guardarmi riflessa allo specchio mentre mi vestono e di non vedere nulla di attraente. Penso di avere una bella mente, degli occhi belli e belle labbra. Negli altri ricerco il modo di muoversi, la gestualità.
V:
In questo periodo nulla. In me, intendo. Forse le mani e gli occhi. Provo molto fastidio verso me stessa. Noto il modo di approcciarsi a quello che si ha attorno, gli occhi e le mani, se l’altro mi fa ridere o mi fa stare bene.

Come pensi sia vista all’esterno la vita sessuale di una persona disabile? Hai mai trovato degli ostacoli nella società?
F: Generalmente non è vista proprio: più grave è la disabilità, meno la si scorge.
V: È vero che c’è un’idea diffusa di una scarsa vita sessuale. Io non ho mai trovato ostacoli sinceramente, nessuno ha mai messo in dubbio che ce l’avessi o che potessi averla, sono fortunata. Ma molti disabili devono ancora nascondere i propri desideri e bisogni.

Pensate che la figura dell’assistente sessuale possa liberare chi ancora si nasconde o si reprime?
F: Sì, l’assistenza sessuale permetterebbe di conoscere il proprio corpo in una maniera diversa. Disabili single o che non hanno mai provato il sesso vengono toccati per essere cambiati, vestiti, visitati, spostati dal letto alla sedia e non è giusto, è stancante. E non tutte le carezze sono uguali. Il corpo non svanisce quando sei disabile, c’è ancora.
V: La figura dell’assistente sessuale è necessaria perché la sessualità porta l’uomo o la donna a conoscere parti nascoste di sé. E non mi sto limitando all’aspetto fisico: parlo di piena consapevolezza di se stessi. Molti disabili non accettano la figura dell’assistente perché la considerano una dimostrazione della nostra incapacità di farcela da soli.

Fare coming out è stata una scelta o una necessità? Pensi che una persona disabile sia più motivata o obbligata nel farlo?
F: Una scelta e una necessità perché non amo particolarmente quando la mia ragazza viene scambiata per la mia badante oppure per un’amica tanto affettuosa. Sono stata più motivata. Non mi sembrava proprio il caso di limitarmi ancora. Avrei potuto non farlo, l’obbligo non c’è. E poi, dato che la sessualità del disabile è difficilmente concepita, figuriamoci immaginarsi un disabile omosessuale!

Sei mai stata a un pride?
F: Sì, era al centro della città, avrei potuto mettermi in mezzo al corteo tranquillamente, ma ho preferito stare ai lati. Non ero l’unica.

pubblicato sul numero 35 della Falla – maggio 2018