Piccolo ritratto di Yukio Mishima tra letteratura e politica

di Francesco Colombrita

“Una vita a cui basti trovarsi faccia a faccia con la morte per esserne sfregiata e spezzata, forse non è altro che un fragile vetro.”

Yukio Mishima, al secolo Kimitake Hiraoka, nato a Tokyo nel 1925, è forse una delle più emblematiche e controverse figure del Novecento letterario e politico giapponese. Scrittore di grande fama e successo, soprattutto a partire dalla pubblicazione di Confessioni di una maschera (autobiografia che non risparmia di rivelare dettagli scabrosi sulla formazione erotico-affettiva dell’autore), Yukio passò la sua vita costantemente in lotta tra la ricerca della normalità e quella “brutta abitudine” che iniziò a manifestarsi in adolescenza.

La consapevolezza di una forte passione omoerotica nasce in lui in seguito alla visione, nello studio paterno, di un’immagine di San Sebastiano, dinanzi alla quale “Le mani, affatto inconsciamente, cominciarono un movimento che non avevano imparato mai. Sentii un che di segreto, un che di radioso, lanciarsi ratto all’assalto dal didentro. Eruppe all’improvviso, portando con sè un’ebbrezza accecante”.

Non si dichiarerà mai apertamente omosessuale, tuttavia l’impronta di questa istanza ripercorre la sua opera, legandosi a doppio filo con gli ideali di bellezza e di morte che fanno dei suoi romanzi un universo simbolista in costante richiamo degli impulsi di conservazione e distruzione. In romanzi come Colori proibiti e La scuola della carne, non si manca di parlare apertamente della sessualità dei protagonisti, delineando un sistema di rapporti omosociali che in alcuni casi sfociano in una violenta misoginia.

A partire dagli anni ‘50, la situazione politica e sociale giapponese inizia un rapidissimo declino: la perdita dei valori tradizionali, la rinuncia alla sovranità nazionale, sono solo alcune delle micce che infiammeranno lo scrittore, portandolo alla politica. Innegabilmente reazionario e nazionalista, Yukio Mishima è stato tuttavia erroneamente associato al fascismo e al nazismo, con i quali non condivideva altro che questi due principi. In opposizione a quella che lo scienziato politico Robert Ward ha definito “L’occupazione […] più esaustivamente pianificata di cambiamento politico massiccio diretto dall’esterno nella storia del mondo”, operata mediante l’imposizione di una costituzione che snaturava alcuni dei principi fondanti della società giapponese, Mishima fonda la Tate no kai, scuola di samurai mediante la quale far rinascere lo spirito spezzato dall’Occidente.Dopo lunghe pianificazioni e dopo aver lasciato un biglietto d’addio, nel 1970, i membri chiave di questa associazione occupano un ufficio amministrativo e il loro amato maestro si adopera in un discorso pubblico davanti a giornalisti e militari, per poi fare seppuku (suicidio rituale che prevede di trafiggersi con una lama per poi essere decapitati da un assistente). Il coronamento di una vita snaturato dal grottesco esito: l’amante di Mishima e suo secondo al comando, fallisce nel dare il colpo di grazia all’ultimo samurai per ben due volte, tanto da dover fare intervenire il terzo in carica e decidere a sua volta, per la vergogna, di fare seppuku.

pubblicato sul numero 37 della Falla – luglio/agosto/settembre 2018