LA DIFFICILE RICHIESTA D’ASILO PER LE PERSONE LGBT+

di Francesca Anese

«Né il tuo modo di camminare, né quello di comportarti e né i tuoi vestiti lasciano supporre che tu possa essere gay. […] È stato inoltre riferito che litigavi spesso con i tuoi coinquilini. Ciò denota un carattere aggressivo, che non ci si aspetterebbe da un omosessuale. […] Solitamente i gay sono persone piuttosto socievoli», il nuoto è uno sport completo, in amore vince chi fugge, la tetta destra è sempre la più grande.

Questo lo spessore delle dichiarazioni di un funzionario statale dell’ufficio immigrazione di Wiener Neustadt, Bassa Austria, nel documento che spiega le ragioni dell’asilo negato a un diciottenne afgano, scappato dal suo paese perché omosessuale. La vicenda risale all’agosto scorso e i suoi contorni surreali sono stati riportati dal settimanale Falter, destando scalpore. È solo uno dei tanti esempi che mettono in luce le difficoltà dei migranti LGBT+ e che fanno sorgere spontaneo il quesito su quali siano i tratti distintivi di una persona omosessuale, che la facciano riconoscere e tutelare come tale dal diritto internazionale.

La legislazione europea prevede, con I principi di Yogyakarta del 2006, il diritto di asilo per i migranti in pericolo a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. Per l’Italia è rilevante una sentenza della Cassazione che ad aprile ha riconosciuto lo status di rifugiato all’ivoriano Bakayoko Aboubakar, minacciato dalla famiglia in quanto gay dichiarato e fuggito dal suo Paese dopo la morte sospetta del compagno. Secondo la Cassazione «non è conforme a diritto» negare la protezione italiana senza accertare se il richiedente disponga di uno stato di sicurezza garantito dal suo Paese. Con tale sentenza si mette in chiaro che il diritto d’asilo non è riservato esclusivamente a chi proviene da stati in cui l’omosessualità è reato (non è infatti il caso della Costa d’Avorio) ma è necessario anche accertare l’adeguata protezione statale da soggetti privati violenti.

Dati questi presupposti sembrerebbe che i richiedenti asilo LGBT+ siano ampiamente tutelati. A questo punto non resta che chiedersi come risultare abbastanza LGBT+ da ottenere il visto, dal momento che il ragazzo afgano di cui ha scritto il Falter non sembrava abbastanza spumeggiante da essere avvolto nei colori arcobaleno. Sulla vicenda si è espresso il ministro degli Interni austriaco Kickl, il quale ha assicurato che il caso non riflette affatto i criteri usati di solito. Dunque quali sono questi criteri? A detta di Kickl non ci sono regole precise, anche se i rifiuti vanno motivati, ma va considerato che «le impressioni individuali influiscono molto nel processo di accertamento». Insomma, se non si fosse capito: verificare il tasso di gaytudine non è facile. A dirlo è Patrick Dörr, il responsabile del programma di accoglienza tedesco Queer Refugees, che sottolinea come spesso i migranti LGBT+ siano restii a rivelare il loro orientamento sessuale o la propria identità di genere, per la zavorra dello stigma sociale ancora radicato, per la consapevolezza che venire allo scoperto, anche all’estero, spesso significa una condanna irreversibile da parte della famiglia, ma anche perché, al contrario di quanto si pensi, non è risaputo che il coming out possa aiutare a ottenere lo status di rifugiato.

È chiaro che non esiste un identikit gay a cui affidarsi, ma in alcuni casi i rifiuti delle autorità sembrano incomprensibili. Mehdi Shokr Khoda è finito addirittura in Commissione europea: diciannove anni, cristiano e omosessuale, nel 2017 parte dall’Iran per la Svezia, dove chiede l’asilo politico. Durante gli accertamenti gli vengono rivolte domande molto personali non consentite dal regolamento ed è chiamato a testimoniare in tribunale il fidanzato del giovane, uno studente italiano, ma a causa di problemi con l’interprete nemmeno la presenza di un compagno è bastata. Dopo l’ennesimo rifiuto i due si rivolgono a uno studio specializzato, pagato con i ricavati della raccolta fondi internazionale aperta per dare supporto a questa coppia non abbastanza omosessuale.

Il regolamento europeo sulle richieste d’asilo nasce  per garantire sicurezza sia a chi scappa dalle guerre, sia a chi viene perseguitato per le sue caratteristiche personali, quali religione, posizionamento politico, orientamento sessuale. La tragedia è che queste norme, soprattutto nel caso delle persone LGBT+, appaiano del tutto inefficaci, e lascino un margine di discrezionalità troppo ampio alle singole commissioni, a volte impreparate o che prendono decisioni basate su stereotipi e omofobia interiorizzata.

Pubblicato sul numero 46 della Falla, giugno 2019