Policy aziendali, pedagogia e buon costume

 

Da qualche settimana la friendly Russia si è nuovamente inalberata contro la comunità LGBT+. Questa volta la vittima dell’attacco portato avanti da Valery Rashkin e dalla Roskomnadzor (servizio federale per la supervisione delle comunicazioni di massa) è l’ultimo videogioco di casa EA, Fifa 2017. Il reato – di propaganda gay – consiste nella presenza, all’interno del gioco, di divise raffiguranti un arcobaleno, indossabili dai giocatori delle squadre di Premier League che lo scorso campionato hanno aderito alla campagna Rainbow Laces.

Nel comunicato del Roskomnadzor si sostiene che la presenza di “un simile contenuto” possa essere ritenuta offensiva per i giocatori più piccoli, i quali subirebbero una pericolosa educazione, e si minaccia il ritiro del gioco dal commercio. Se in Russia l’assenza di diritti per le persone LGBT+ può spiegare l’accaduto, è meno comprensibile in altre parti del mondo soprattutto quando sono le stesse aziende ad adoperare limitazioni.

Il primo personaggio ad aver subito un processo di censura è la transgender Birdo, presente nella saga di SuperMario, della quale nelle istruzioni di gioco, modificate prima del rilascio, si diceva che “pensa di essere una ragazza. Forse sarebbe meglio chiamarlo Birdetta“. Ciò è spiegato dal fatto che le principali aziende di videogiochi seguono delle policy che vietano la presenza di contenuti violenti e sessualmente espliciti al loro interno. Lecito e sacrosanto se non fosse che il 77,2% dei videogiochi venduti, come riportato dai sondaggi dell’ESA nel 2016, sono violenti ed espliciti.

Indagando i principali titoli in commercio si può notare come i protagonisti incarnano, nella maggioranza dei casi, lo stereotipo del maschio bianco eterosessuale impegnato a salvare la principessa di turno, la patria da qualche invasione aliena o più semplicemente a distruggere tutto ciò che lo circonda. La presenza di questa settorialità nei videogame ha portato, come spiegato nelle ricerche di Anderson e Bushman, la crescita di atteggiamenti omofobi, misogini e razzisti nei videogiocatori. I dati, inoltre, diventano più allarmanti in seguito all’introduzione delle sessioni di gioco online.

Se in linea teorica la possibilità di interagire più facilmente con altri giocatori dovrebbe aiutare alla comprensione del diverso, in pratica è esattamente l’opposto. Per questo motivo negli ultimi anni diversi studiosi e sviluppatori, come la transgender game designer Anna Anthropy, si sono impegnati nel creare giochi meno soggetti a stereotipi di genere o comunque caratterizzati da una certa queerness. Dall’introduzione di protagonisti femminili a saghe come Dragon Age o The Sims, si è in alcuni casi vista la possibilità di inserire quell’elemento LGBT, se così si può chiamare, inteso a svincolare il mondo dei videogiochi da un’ottica così blindata. Certo è che nell’enorme panorama videoludico di esempi accettabili se ne possono contare sulla dita di una mano, e basta guardare i titoli in uscita per il 2017 per rendersi conto di come le principali aziende del settore remino in un’altra direzione. È per questo che, almeno per chi scrive, l’italianissimo spot della Clementoni “imparare divertendosirisulti essere una realtà abbastanza preoccupante.

pubblicato sul numero 22 della Falla – febbraio 2017