MARICHUY, LA POLITICA MESSICANA E LA SPERANZA DELL’IMPOSSIBILE

Veniamo a parlare di cose impossibili, perché del possibile si è già detto troppo”. Queste le parole sullo striscione che fa da sfondo a María de Jesús Patricio Martínez, meglio conosciuta come Marichuy, mentre si rivolge a una folla di studenti e sostenitori nell’università principale di Città del Messico.

Marichuy, guaritrice tradizionale e attivista per i diritti umani di etnia Nahua, è la prima donna indigena ad aspirare alla presidenza del Messico. Il suo non è un percorso individuale: la propria candidatura è il risultato del lungo cammino politico cominciato con le sollevazioni dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) del 1994. Seguendo i principi di libertarismo, anticapitalismo e riscatto della dignità delle popolazioni indigene, l’EZLN da più di due decadi oppone una piccola ma tenace resistenza allo Stato messicano dalle montagne del Chiapas, lo stato del Messico con la maggior ricchezza di risorse naturali e il più alto livello di povertà della popolazione.

A dicembre del 2016, gli zapatisti hanno annunciato l’intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali del 2018, e qualche mese dopo il Consiglio Nazionale Indigeno (un’organizzazione nazionale legata all’EZLN) ha eletto Marichuy come portavoce. La scelta di candidare una donna non è casuale: se la lotta per i diritti dei popoli indigeni del Messico è una delle battaglie più visibili dell’EZLN, la questione di genere ha avuto un peso altrettanto importante. La partecipazione femminile nel movimento zapatista, incluso nella breve guerriglia armata del 1994, ha stravolto ruoli di genere millenari, aggravati dalla povertà e dall’emarginazione causate prima dal colonialismo spagnolo e poi dallo spietato neoliberalismo contemporaneo. Ciononostante, l’EZLN ha una relazione complessa con il movimento femminista messicano: le donne zapatiste hanno sempre ribadito che la loro oppressione deriva dall’essere “donne, indigene e povere”, e in quanto tale non può essere risolta da un certo femminismo istituzionale urbano che spesso e volentieri tralascia la questione etnica ed economica dalle proprie lotte.

A breve, purtroppo, la corsa elettorale di Marichuy incontrerà la sua preannunciata fine: all’inizio di gennaio, infatti, aveva raccolto solo il 15% delle 866.563 firme necessarie per partecipare alle elezioni come candidato o candidata indipendente, il che rende pressoché inesistenti le sue probabilità di successo entro il 12 febbraio, la data limite per la raccolta firme. L’Istituto Nazionale Elettorale, quest’anno, ha digitalizzato completamente il processo di raccolta firme, attraverso un app che funziona malissimo, richiede ore per il download, e funziona solo con i sistemi operativi del telefono più recenti. Per la candidatura di Marichuy, che conta sull’appoggio delle fasce più povere e rurali della popolazione, questo rappresenta una morte annunciata; per un paese come il Messico, è la fine della messinscena della democrazia, con l’esclusione esplicita di grande parte della popolazione dal processo elettorale.

Minuta, sorridente, vestita con i colorati abiti tradizionali dai motivi floreali, Marichuy è una Davide impegnata in una lotta senza possibilità di vittoria contro Golia – lo Stato messicano, ma anche una configurazione politica ed economica che globalmente schiaccia tutti i piccoli del mondo con la sua forza brutale da gigante. Non a caso Pino Cacucci scrive in Polvere del Messico che in questo paese Don Chisciotte avrebbe ricevuto ogni onore, perché “tutti gli eroi popolari, in Messico, sono perdenti che hanno sfidato i mulini a vento del potere”. Per molti messicani, le “cose impossibili” di cui parla Marichuy sono l’unica speranza: il possibile non ha nulla da offrire.

pubblicato sul numero 32 della Falla – febbraio 2018