Un fragore metallico fece alzare le sopracciglia dell’anziana signora del piano di sotto. Dopo i rumori di pesante carpenteria durati tutta la mattina, lei sospirò preoccupata. A quell’ultimo rovinio di lamiere si aggiunsero un coro di vittoria e un applauso a più mani. Qualunque cosa stessero combinando quegli universitari sembrava aver avuto esito.

Da quando Riccardo era stato lasciato, la porticina del balcone era diventata il suo chiodo fisso. Quando lanciò il suo urlo di vittoria allarmò tutti quanti, che contagiati dall’emozione schizzarono fuori in balcone. Gli applausi precedettero un momento di densa attesa.
“Io non so se ce la faccio” tremarono le labbra del ragazzo, aveva la bocca impastata.
“Ricky stai rompendo con ‘sta porta da troppo. Se non la apri tu, lo faccio io”. Federica non era più l’intimidita e grata rifugiata che Matteo aveva salvato. Per molte faccende, pur essendo molto delicata nei modi, era più decisa degli altri due. “Va là spostati…”

“NO!”, Riccardo spalancò la piccola porta precedendola con uno scatto. Nelle luci del pomeriggio, che si faceva molto lentamente sera, il buio all’interno venne definitivamente compromesso rivelando un passaggio aperto, sgombro e profondo. Tutti e tre si chinarono con l’unica torcia puntata che cercava con curiosità. Riccardo entrò subito con mezzobusto, preceduto dalla luce che brandiva.

Lo spazio era così stretto da far pensare a un’intercapedine, ed era altrettanto basso. Così angusto che solo un bambino delle elementari sarebbe potuto entrare e uscirne. A ben guardare non era proprio sgombro perché piccoli mucchietti di stracci erano divisi in pile disordinate, come quelle che si formano di sabato intorno alla lavatrice. Quando il ragazzo si ritrasse teneva incredulo in mano un cestino da bici, foderato internamente con un paio di magliette e decorato esternamente con un buon numero di fiocchi fatti con calzini colorati. Il cesto venne abbandonato a terra prima che Riccardo facesse qualche passo indietro. La sua espressione incredula presupponeva un’esclamazione, una qualunque, di sorpresa e orrore, ma sembrava paralizzata.

“Che cosa c’è? Fegati? Cuori umani?”. Federica si sporse per guardare meglio e lo stesso fece Matteo. La voce di Riccardo li colse alla sprovvista, impastata di paura: “Le nostre cose. Le cose che… abbiamo perso”. Prima che i due si rendessero conto del contenuto del cestino Riccardo piombò tra di loro affondando le mani nella paccottiglia. “La cover vecchia del mio iPhone, le bolle di sapone che aveva portato Anna, la spilla di Gender Bender, il metro avvolgibile del trasloco, tre paia di auricolari, la chiave del mio armadio, la candela del mio… del mio compleanno, matite dell’Ikea, la chiavetta USB, le pinzette, la tua tessera sanitaria, un Labello, il mio vecchio spazzolino e… l’anello.”. La sua voce si era fatta sempre più sottile e con il sopraggiungere dell’ultima parola venne sovrastata dai rumori della strada.

Una ventina di minuti dopo i tre erano seduti in cucina. La porta era stata richiusa e il pesante vaso di fiori rimesso al suo posto. Le cose ritrovate erano sparse sul tavolo, in mezzo a granelli di zucchero persi durante la colazione e briciole di tabacco smarrite dai pacchetti di sigarette. Riccardo non parlava più, continuando a rigirarsi l’anello che gli aveva regalato Antonio tra le dita. Matteo parlava per tutti, ricordando che probabilmente era tutto uno scherzo. Federica ispezionava gli oggetti, trovandoli tutti molto puliti, come posate d’argento lucidate prima di venir riposte.

Prima del calar del buio riposero gli oggetti nel cestino e furono tutti e tre d’accordo nel rimetterlo dove l’avevano trovato. Assicurarono la porta come meglio poterono, stuccandone i bordi con la pasta bianca che Matteo aveva comprato per riparare alcune piastrelle della cucina. Finirono il lavoro all’ora di cena e non ne parlarono più. Nessuno aveva trovato una spiegazione e quindi si convinsero di non averne bisogno. Riccardo però non aveva riposto l’anello. Ci giocava in tasca con lo stesso godimento di chi fa schioccare il piercing sulla lingua contro il palato e le gengive. Poco a poco, anche lui si dimenticò della porta segreta e passarono due settimane.

Una notte non tornò a casa da solo. Matteo e Federica erano a fare after al b.u.c.o. sotto il ponte di Stalingrado. Ricky ne aveva approfittato per lasciarsi infilare la lingua in bocca da un ragazzo con la barba nerissima e un corpo gonfio di voglia. Nel bel mezzo del dancefloor del Cassero, incollati come se si conoscessero da sempre, aveva sussurrato solo “Andiamo via?” e se l’era portato a casa. Dimenticandosi di chiedergli il nome, avevano alternato sbiascicate parole sulla musica a profondi baci sotto i portici che li dividevano dall’appartamento. Quando Riccardo aprì la porta, le prime luci dell’alba si affacciavano già sui tetti di Bologna. Ci mise un po’, mentre si spogliava eccitato, a capire che in casa sentiva respirare qualcuno oltre a loro, rumorosamente.

(4 –  continua)

pubblicato sul numero 3 della Falla – marzo 2015