di Leonardo Arpino

Si dice che il TdoV (Transgender Day of Visibility) sia nato come contrappunto al TDoR (Transgender Day of Remembrance), per celebrare da vive le persone trans*e i loro successi: una di quelle ricorrenze le cui origini sarebbe forse auspicabile dimenticare. L’occasione si presta anche a un po’ di ostentazione: se oggi il vostro social network di elezione non è intasato di foto a tema è chiaro che non siete trans* ver* (né ver* allies). Si può, tuttavia, provare ad abbozzare una riflessione appena più strutturata attorno alla visibilità delle persone trans* -fosse anche solo per dissimulare la dipendenza da Internet di chi scrive.

Ecco dunque una scaletta in tre punti.

“A” come Anonimato. Susan Stryker ha paragonato l’essere trans all’essere mancini in un mondo fatto per i destrimani: una condizione minoritaria a cui col tempo ci si abitua: «wouldn’t it be great if being trans was as unremarkable as being left-handed?» (Non sarebbe grandioso se essere trans fosse irrilevante quanto l’essere mancini?, n.d.r.). Un’attivista di un importante gruppo italiano ha detto, durante un evento recente, che in fondo i documenti non servono a chi sta bene con se stess*, suggerendo cioè che il riconoscimento legale del nome e dell’identità di genere sia tutto sommato cosa non necessaria al benessere psicologico della persona. Due diversi, direi antitetici, tipi di anonimato a confronto: nel primo caso, è anonima (cioè non associata a una particolare qualità) la condizione di essere trans*; nel secondo resta anonimo (cioè privo di un nome proprio legalmente riconosciuto) l’individuo. Ma essere clandestini, privi di documenti, in casa propria, non fa che propagare il concetto di persona trans come outsider anziché come espressione di una minoranza. Mentre l’anonimato (inteso nello stesso senso dell’ “unremarkable” di Stryker) non genera necessariamente appiattimento e normalizzazione, ma è anzi una condizione senza la quale può emergere solo un’individualità definita pregiudizialmente. E la visibilità ha senso quando è una scelta, non quando essere espost* è l’unica condizione possibile.

“B” come Biblioteca. Per la maggior parte del mondo cis, noi esistiamo come personaggi in una collezione di letteratura eterogenea fatta di protocolli, manuali diagnostici, atti di conferenze, articoli scientifici, palinsesti e show televisivi. Recitiamo copioni piuttosto rigidi, da cui viene sfrondato ciò che potrebbe risultare incoerente rispetto alla tradizione ormai calcificata: accade così che i documenti ufficiali che regolano la nostra vita (le perizie dei medici, le sentenze dei giudici) tacciano delle nostre relazioni giudicate inappropriate, magari perché omosessuali rispetto al genere di scelta. Anche il voyeurismo dell’apparato medico-legale sulla nostra sessualità recupera la pudicizia quando si tratta, per esempio, di ammettere che molti di noi, lungi dal volerli mozzare, hanno idee precise su come usare i propri genitali. Chi afferma che le nostre identità non sono determinate dal discorso medico-legale sbaglia: può darsi che soggettivamente il nostro privatissimo sentire non ne sia influenzato (ognuno è giudice di sé su questo punto), ma quasi tutto ciò che il resto del mondo sa di noi proviene da quei testi. È lì che vanno ad attingere youtuber, giornalisti, deputati e mamme preoccupate. Spiace dirlo, ma quella biblioteca va bruciata – o, perlomeno, spostata ad ammuffire in qualche deposito, mentre si riempie la sala principale di narrazioni nostre, singolari, anche pazzamente divergenti l’una dall’altra e pazienza se si perde il rigore classificatorio necessario alle diagnosi e alle deliberazioni. Fatevi un piacere: quello zio che recalcitra e non vuole saperne di usare i pronomi giusti portatelo a teatro a vedere qualcosa di Liv Ferracchiati, anziché dalla psicologa.

“C” come Cambiamento. Avete presente quella frase, cavallo di battaglia dei quarantenni su Facebook, «sii il cambiamento che vorresti vedere nel mondo»? A volte ho il sospetto che noi trans l’abbiamo presa un po’ troppo alla lettera. Però pensate questo: una transizione di genere è uno degli atti incruenti più sovversivi che esistano. A questo fatto, sì, occorre dare visibilità: non al terzo pelo di barba per sé, ma alle implicazioni di quel terzo pelo di barba per le fondamenta dell’organizzazione binaria della società. Qualunque sistema che, per sopravvivere, deve derubricare una minoranza in eccezione è destinato a fallire: e noi siamo qui per ricordarlo.