Come ben sa chi ha seguito questa rubrica, i mesi a cavallo tra il 2015 e il 2016 dovevano rappresentare il risveglio del cinema LGBT+.

Le grandi attese erano soprattutto per Freeheld, rivelatosi noiosino e apatico, The danish girl, che paradossalmente sta ricevendo critiche dallo stesso ambiente T, e soprattutto Carol, il film che avrebbe definitivamente messo in salvo la nuova generazione di lesbiche dalla già nominata “sindrome della poiana”.

Prima di dire due parole su questa pellicola, faccio le dovute premesse: su Carol, io stessa nutrivo importanti aspettative e, si sa, le grandi attese possono deludere, seppure a seguito di un risultato in realtà abbastanza sufficiente. Cate Blanchett merita e meriterà tutte le candidature di questo mondo perché mi ha affascinato, colpito a ogni magnetico sguardo o elegante movenza. Stessa cosa per Rooney Mara che, ineccepibile nel rendere la tensione emotiva della popolana Therese, addirittura ruba la scena alla protagonista durante i momenti salienti. Quando poi ho visto comparire la mia adorata Sarah Paulson, reduce dai tormenti di American horror story, non nascondo di avere perfino provato del genuino piacere fisico.

Bene, detto questo, per me è no. No, non è un capolavoro. No, non si avvicina nemmeno lontanamente a scalfire la perfezione della Vita di Adele. No, non ha niente di particolarmente nuovo rispetto ad altre opere cinematografiche a tematica LGBT+. No, non è pacato e pieno di pathos, bensì piuttosto melenso e lezioso. No, la raffinatezza di Cate Blanchett e il dolce viso di Rooney Mara non bastano a raccontarci una storia d’amore così ben descritta nel romanzo.

E no, di certo non si può dire che sia un brutto film: piacerà al punto giusto a coloro che ancora non erano pronti alla dirompente sessualità di Adele, vincerà qualche premio grazie all’indiscutibile bravura delle due belle interpreti, verrà inserito tra i preziosi lungometraggi che il grande cinema hollywoodiano ha gentilmente donato alla popolazione LGBT+ e sarà ricordato dalle lesbiche per essere uno dei primi senza un finale tragico. Ma insomma, poteva essere tanto di più. Detto questo, mia cara lettrice, diciamocelo: al primo occhiolino della Blanchett sul grande schermo ti sarai già dimenticata delle mie parole e griderai al capolavoro. Lo so bene, l’ho fatto anche io.

pubblicato sul numero 12 di La Falla – febbraio 2016

immagine realizzata da Andrea Talevi