Le avventure iniziano all’improvviso, inaspettate, spesso non cercate. Se sono avventure vere lo capisci perchè ti travolgono con l’attrazione irresistibile che solo la visionarietà dei grandi sogni suscita. Le avventure poi sono molto più coinvolgenti quando le viviamo insieme ad altre e ad altri, e con loro condividiamo un immaginario. In altre parole, un progetto. Ecco, pensavamo che questo mese, a poco più di un anno dalla nascita de La Falla, fosse il caso di raccontarvi cosa è La Falla per noi: un confronto quotidiano con i temi politici e culturali che la nostra comunità dibatte, con le posizioni più scomode, con le carenze di un sistema dell’informazione che spesso strumentalizza la comunità LGBT+. Un caso recente, è quello del dibattito sulla “gestazione per altri”, usato nel tentativo di abortire il progetto di legge che ci riconosca almeno alcuni di quei diritti che ci spettano, il famoso DDL Cirinnà. Quando in riunione di redazione abbiamo deciso di affrontare su La Falla il tema avevamo diverse possibilità all’orizzonte. L’avventura consisteva nel fare una scelta che non risultasse “facile”: avremmo potuto scegliere una voce più vicina alle posizioni politiche del nostro Circolo o alle idee personali di molti di noi. Abbiamo scelto invece di chiedere un contributo a Daniela Danna, che da sempre si occupa di queste tematiche, consapevoli che forse le sue posizioni non sono le più condivise all’interno del movimento LGBT+ o del Cassero. Ci è parso di grande valore presentare una voce “diversa”, ascoltare con attenzione chi la pensa diversamente da molt* di noi, approfondire un dibattito che è stato spesso troppo semplificato, a scapito della sua complessità. A Daniela siamo molto grat*, perchè le sue parole non solo ci aiutano a contestualizzare con precisione la questione ma ci offrono l’occasione per ribadire il senso di questo “poster con degli articoli nel didietro”, ovvero accendere discussioni, non dare mai per scontato l’altro, riaffermare sempre e comunque la libertà di opinione e la dignità del pensiero altrui, aprire i discorsi e non chiuderli. Di gestazione per altri parleremo ancora e altrettanto diffusamente, come facciamo per ogni tematica a noi cara, è una promessa. Anzi, un’avventura. (Andrea Cioschi)

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Il dibattito in atto a proposito di maternità per altri è tutto scombinato, a cominciare dal nome. Si parla di maternità surrogata o GPA, che sta per gestazione per altri. Questi nomi sono ingannevoli, perché non c’è in gioco una “surrogata” della madre. Ci sono genitori biologici e genitori sociali, che possono o non possono coincidere. Non si tratta poi di “gestazione” per altri ma di vera e propria maternità, perché la donna che rimane incinta o nel cui utero viene impiantato un embrione lo crescerà per nove mesi con la sua carne e il suo sangue, nel suo corpo che lo partorirà. E un/a neonato/a nulla sa dei propri geni, ma solo del corpo che lo/a ha nutrito nella sua graduale acquisizione di consapevolezza: ne riconoscerà la voce, il battito cardiaco e le altre qualità del corpo che può percepire.

Come nei casi di adozione quindi parliamo da una parte di madre naturale (nel mio libro Contract children uso la parola inglese che significa “madre di nascita”) e dall’altra di genitori sociali, che si occupano del/la bambino/a dopo la nascita e che possono anche loro esserne i genitori biologici, se sono all’origine dei gameti.

Dove ha origine la confusione? Nel fatto che ci sono molte forme di questa pratica, che essenzialmente consiste nella promessa che una donna fa a una coppia o a un/a singolo/a di portare a termine una gravidanza rinunciando successivamente a riconoscere il/la neonato/a. Quale posizione occupano i partecipanti a questa pratica? Dipende. Dipende dal loro atteggiamento reciproco, ma dipende anche dalle leggi, dalla validità o meno di un contratto che gli avvocati hanno chiamato “di surrogazione”, dalla possibilità legale di fare ricorso alla fecondazione in vitro – infatti la maternità per altri non è affatto una tecnica di riproduzione assistita, ma una relazione tra una donna che porta a termine una gravidanza e coloro a favore dei quali si è impegnata moralmente a farlo. E le motivazioni sono diverse a seconda di come la legge configura la scelta e la relazione.

In Italia questo è possibile con una promessa, un accordo informale, attraverso il quale la donna può non riconoscere la/il bambina/o mentre il padre biologico lo riconoscerà. Non è possibile fare ricorso a medici che pratichino la fecondazione in vitro, per cui la madre di nascita deve rimanere incinta con l’autoinseminazione o con un rapporto sessuale. Questa forma di maternità per altri non può essere impedita, è già legale, non prevede obblighi ma dà facoltà.

In California i gameti (l’ovulo e lo sperma) possono essere comprati, la madre messa sotto contratto, e coloro che hanno intenzione di diventare genitori sono riconosciuti dalla legge come tali nel momento in cui comprano tutte queste cose (in California, ma la madre di nascita potrebbe invece andare a partorire in un altro Stato).

In India – dove peraltro il governo ha intenzione di impedire agli stranieri di accedere a questa pratica – non ci sono leggi ma solo “linee guida” dell’Ordine dei medici, che non vengono rispettate. La spaventosa disuguaglianza tra i poveri dell’India e (persino!) la classe medio-bassa dei paesi occidentali fa sì che il caso tipico sia che la donna venga tenuta in una clinica sotto osservazione per tutta la gravidanza, abortisca a comando quando gli embrioni che attecchiscono sono “in sovrannumero” rispetto all’ordinazione, partorisca con un cesareo e non veda nemmeno la/il neonata/o, oltre a non poter comunicare direttamente con i committenti del bambino se non parlano la sua lingua, mentre firma carte in inglese che tolgono ogni responsabilità alla clinica, persino nel caso della sua morte. La motivazione è il guadagno per la vendita del/la neonato/a: a questo arriva il capitalismo dopo aver promesso di liberarci dalla schiavitù.

È normale che ci siano reazioni forti, ed è normale che – data la varietà di pratiche che la maternità per altri accomuna – ognuno “parta da sé” per generalizzare il giudizio, che a mio parere deve rimanere articolato. E nelle posizioni “a partire da sé” dei movimenti assistiamo a due fenomeni contrapposti: il movimento LGBT+ ha una malattia infantile, mentre quello femminista ne ha una senile. Nel primo caso, gli uomini gay (alcuni) sono talmente esaltati dalla possibilità di avere figli in modo facile, semplicemente pagando, che non riflettono abbastanza sulle cause e conseguenze di questa pratica, e Famiglie Arcobaleno rivendica l’introduzione dei contratti in Italia per risparmiarsi anche la fatica di andare all’estero. Da parte femminista, per stanchezza nel pensiero, Senonoraquando-Libere invoca una proibizione legale senza se e senza ma, che cancella l’esperienza di quelle donne che hanno portato a termine gravidanze per altri dichiarandosi pienamente soddisfatte e felici dell’aiuto che hanno prestato. (E mentre scrivo Senonoraquando-factory se ne dissocia per la drasticità della posizione espressa e per le conseguenze di questo dibattito sul riconoscimento legale delle coppie dello stesso sesso.)

Da parte mia accetto questa possibilità, ma non accetto che tale soddisfazione sia quella che si prova per aver compiuto un lavoro onesto ed appagante, ricevendo giustamente del denaro per la propria bellissima opera. A qualunque titolo dato, pure se lo chiamiamo “rimborso”, quel denaro significa la compravendita di un essere umano, che non va ammessa nemmeno per il più alto dei fini.

E quindi parliamo di noi, gay e lesbiche – pur con la nostra irriducibile differenza biologica che impedisce paragoni perfettamente calzanti tra madre e padre biologica/o. Le cose nuove sono esposte a errori. Le lesbiche (alcune) sono state anche loro entusiaste della tecnica della procreazione assistita, arrivando all’inizio, in qualche caso, addirittura a dire ai figli che il padre era morto. Ora questo non succede più. Oggi i gay sono esposti alla tentazione di cancellare la madre, di usarla come un contenitore per ottenere il prodotto desiderato. Riflettiamo bene anche su questo.

Il modo giusto di rispondere a chi dice che i gay si vogliono comprare i bambini è chiedere perché non scandalizzi che siano stati finora in stragrandissima maggioranza gli etero a comprarli.

I bambini che già ci sono è doveroso accoglierli e le adozioni come secondo genitore devono sanare le situazioni di non coincidenza della famiglia in cui sono cresciuti con la famiglia registrata all’anagrafe. Ma possiamo ora, credo, anche arrivare a capire che non si possono imporre obblighi alle donne che generosamente vogliono aiutare coppie che non possono procreare, che i bambini che partoriscono sono innanzitutto loro (soprattutto dal punto di vista del/la neonato/a!).

Se proprio non vogliamo accettare di non poter dare la vita con i nostri atti d’amore (cosa che per me rappresenta un vantaggio e non un limite, in un mondo minacciato dall’espansione del sistema capitalistico!) e desideriamo mettere al mondo altri consumatori del pianeta, possiamo certo chiedere a una donna di farci questa promessa, ma con umiltà, accettando l’incertezza, perché è lei l’unica ad avere una relazione primaria con la/il bambina/o che si forma dentro di lei, una relazione che è giusto che possa continuare, se lei lo vuole. Una relazione che non è etico voler interrompere offrendo denaro, né creando un obbligo legale attraverso un contratto. Siamo stati a lungo soggetti oppressi: usciamone senza diventare soggetti dispotici.

pubblicato sul numero 11 della Falla – gennaio 2016