di Roberto Pisano

Podcast dell’intervista

Sara Colaone è l’artista che ha realizzato il poster di Aprile per La Falla. Friulana ma bolognese adottiva, ha pubblicato le sue storie con le più grandi case editrici di fumetto, ha realizzato illustrazioni per riviste come Internazionale e testi scolastici. Nel suo curriculum anche alcuni cortometraggi animati, uno dei quali Le malefiche disavventure di Mr HIV è stato realizzato in collaborazione con Il Cassero. Ci ha accolto nel suo studio per una lunga chiacchierata sull’illustrazione che ha donato al nostro giornale, gli stereotipi nelle storie, il suo lavoro ed i progetti futuri.

Il poster di questo mese ritrae due signore che si baciano per le strade di una metropoli. Da dove nasce l’idea di questo lavoro a tema golden girl?

Riflettevo sull’immagine che abbiamo dei sentimenti e della sessualità delle persone e sul fatto che coloro che esprimono pubblicamente la propria sessualità sono spesso persone giovani, cool, affascinanti. Ho pensato ad una società in cui chiunque possa davvero vivere i propri sentimenti nello spazio pubblico, come le due signore con le buste della spesa, con il carrello delle vivande, una con una specie di deambulatore. Un luogo ideale in cui tutto questo è normale, dove anche due persone anziane, non belle, anche grassocce, con qualche ruga lo fanno pubblicamente.

Nel poster un ragazzo osserva le due donne baciarsi. Credi che oggi vedere due persone anziane,scambiarsi un bacio per strada, indipendentemente dal sesso e dall’orientamento, desti scandalo rispetto ad una coppia più giovane?

Sì. Penso ad esempio ad alcuni film usciti negli ultimi anni che parlano della sessualità delle persone anziane e sono stati considerati shoccanti: siamo portati per natura a legare la sessualità e l’espressione dei sentimenti solo al periodo in cui siamo sessualmente attivi al massimo, e di conseguenza legarli alla gioventù. Dopo, cosa succede? Si può vivere la propria vita sessuale anche dopo la menopausa e l’andropausa, si possono provare sentimenti, che forma assumono, come si esprimono? Una domanda che riguarda un po’ tutti e credo desti ancora scalpore.

Con il poster sei riuscita a fotografare una storia che va oltre lo stereotipo di genere. Nel tuo lavoro di fumettista e illustratrice, oggi com’è possibile disegnare e raccontare storie veramente prive di stereotipi di genere?

È una domanda senz’altro difficile. Lavorare con gli stereotipi ha a che vedere con il lavoro che si fa con sé stessi e con quelli che sono i cliché su cui immaginiamo di poggiare la nostra storia, quanto siamo interessati a ribaltarli, quanto invece li utilizziamo per ribaltare il punto di vista, è un’operazione molto complessa. Io non credo che in una storia il ribaltamento dello stereotipo debba essere un obiettivo in sé, quanto invece debba costituire uno strumento per raccontare in modo molto più vasto i mondi che uno sente realmente. Pianificare a tavolino una storia che possa essere interessante perché lavora sullo stereotipo è secondo me un atto difficilmente dal buon esito: bisogna prima di tutto domandarsi con onestà qual è il proprio reale punto di vista rispetto alle cose ed utilizzare questa riflessione, questo ribaltamento, come strumento per raggiungere l’obiettivo di un racconto onesto, con un vero dialogo tra sé stessi ed i lettori che raggiungiamo con il nostro lavoro.

A proposito di stereotipi, il tuo ultimo lavoro, Leda, narra proprio la vita straordinaria di una donna irregolare, la Rafanelli: anarchica e musulmana, intellettuale e libertaria, in un’epoca in cui le donne faticavano a trovare spazio in Italia. Dove hai incrociato la storia di Leda, cosa ti ha spinto a raccontarla?

Ho incontrato le tracce di Leda vent’anni fa a Reggio Emilia, lavorando ad un progetto sull’anarchismo, presso l’archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa che si trova all’interno della Biblioteca Panizzi. Fiamma Chessa, la direttrice, mi ha mostrato le foto di questa donna incredibile con un turbante, abbigliata da araba, quasi da baiadera, con uno sguardo fermo, aggressivo ma anche molto distante. Mi ha colpito: le immagini ci parlano in maniera molto diretta, ci obbligano a prendere del tempo per riflettere su come usarle. Ne ho parlato subito con Francesco, con cui già lavoravo nel fumetto, ma il tutto è rimasto per un po’ nel cassetto: ci sono voluti molti anni per riuscire a capire come potevamo avvicinarci a Leda, perché è un personaggio difficile. Donna anticonformista, in un periodo storico molto travagliato: nasce alla fine dell’ottocento, vive le rivolte operaie, partecipa prima come socialista e poi anarchica. è di estrazione piccolo-borghese, ha accesso ad una serie di strumenti che non sono a disposizione degli operai, sa leggere e scrivere, è una tipografa, si avvicina all’anarchismo e all’Islam, si professa musulmana, frequenta i futuristi e diventa moglie e amante di artisti ed editori, diventa lei stessa editrice. Scrive su tutti i giornali anarchici, è amica di Pietro Gori e di molti intellettuali dell’epoca ed è una persona incredibile perché riesce sempre a mantenere se stessa come il centro di questo universo. Non è uno specchio che riflette la sua epoca – la Grande guerra, i movimenti artistici, le avanguardie – ma vive all’interno di questi elementi. Sarà amica, forse amante del Benito Mussolini socialista, attraversa questo lungo periodo storico non perdendo mai di vista quelli che sono gli elementi fondanti della sua personalità ed intellettualità: la libertà. Anche a costo di scegliere cose apparentemente incongruenti, il che mi ha molto affascinato. Siamo abituati a pensare la congruenza come un valore assoluto e in quanto tale giudichiamo personaggi storici e politici poiché capaci di una grandissima aderenza a temi. Lei sembra tradire le cose di cui parla, ma ci torna continuamente sopra e le tiene insieme attraverso quest’ apparente incongruenza, che tale in fondo non è. Il modo con cui mantiene unito tutto è abbastanza misterioso e abbiamo cercato di raccontarlo, esplorando il tema della libertà. Lei stessa cambia moltissime maschere, pseudonimi a volte esotici, s’identifica in un modello di donna a volte succube, a volte dominatrice, con l’attivista politica e con la brava madre che pensa solo al bene del suo unico figlio. Una storia non lineare che ci ha permesso di toccare tanti aspetti. Poi si trattava di un’epoca fantastica, di grande libertà intellettuale, di personaggi meravigliosi che s’incrociano.

Pensi che Leda realmente fosse molto privilegiata ad avere queste possibilità a causa della sua estrazione benestante o era un periodo in cui comunque c’era più libertà per tutti di vivere questo fermento intellettuale?

Erano anni in cui l’accesso alla lettura e alle idee era una cosa estremamente preziosa ed ovviamente non alla portata di tutti, ciò che oggi consideriamo estremamente scontato, mentre solo chi sapeva leggere poteva all’epoca essere coinvolto in una discussione politica molto trasversale. I politici, in tutti i casi, lavoravano molto sulle masse, attraverso il comizio e l’informazione, si stampava moltissimo: c’erano tantissimi giornali locali e fogli stampati e ciclostilati nelle cantine, l’informazione era un elemento di grandissima rilevanza nella vita sociale di quell’epoca, dalla fine dell’ottocento agli anni venti. Poi ovviamente con l’avvento del ventennio tutte queste forme d’informazione sono state oppresse o comunque livellate.

Facciamo un passo indietro. In Italia sono tutti maschi è la graphic novel realizzata con Luca De Santis che tratta del confino degli omosessuali in epoca fascista. Una persecuzione di fatto non riconosciuta, per la quale le testimonianze erano scarse e reticenti. Tanto da rendere il vostro libro quasi un unicum sul tema, è stato tradotto in sei paesi, anche fuori dall’Europa. Come avete impostato il lavoro per evitare cliché e rispettare la sensibilità dei testimoni?

Non abbiamo incontrato testimoni ed era questo uno degli interessi scatenanti del libro, perché la vicenda è doppiamente singolare: è una storia poco raccontata e gli stessi testimoni, nelle poche occasioni in cui si sono confrontati con storici ed intervistatori, si sono sempre sostanzialmente negati, non hanno mai accettato di apparire a viso scoperto in interviste video. È esemplare il documentario di Gabriella Romano sul tema. Le uniche volte in cui si è potuta ascoltare la loro voce sono state le poche tracce audio nell’intervista di Giovanni Dall’Orto, attivista del movimento, a Giuseppe B., il personaggio su cui abbiamo ricalcato Ninella. L’intervista è stata poi pubblicata in appendice perché ci interessava stabilire un parallelo tra la testimonianza ed il modo in cui l’abbiamo raccolta ed associata agli altri dati storici tratti dagli archivi dell’Anppia, elaborati da Luca. Intervistare questi testimoni significava anche confrontarsi con la loro resistenza: essendo un fatto dimenticato, un’ingiustizia per la quale non c’è mai stato un risarcimento né fisico né morale, loro stessi han deciso di non parlarne più, di riappropriarsi della loro vita attraverso l’oblio. Diamo sempre per scontato che un testimone abbia bisogno di parlare: molto spesso parlare di fatti storici così drammatici risulta scomodo o inutile. Perché farlo, a beneficio di chi? Sono persone che non appartenevano ad alcune rete, all’epoca non esistevano, di conseguenza non sentivano neanche la necessità di confrontarsi per il bene dei più giovani. E’ un modo di rapportarsi alla storia delicato, che ci fa capire quanto vitale e non scontato diventi il ruolo di chi trasmette le informazioni.

Non ci sono scene, salvo una, che richiamano situazioni di erotismo ed intimità nel libro.

È stata una scelta. Avevamo capito che era molto importante che questi fatti fossero presi sul serio, anche andando contro le credenze su questo confino. Si tratta di 250-300 persone confinate fino all’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale, prima sparsi in varie isole, poi raccolti sull’isola di San Domino. Ciò che si evince dalle informazioni storiche – testimonianze delle schede di polizia, rapporti dei Carabinieri di stanza  – è che queste persone non avevano relazioni amorose o sessuali tra di loro ma, solo in alcuni casi, con i loro carcerieri oppure con i prigionieri politici provenienti dall’isola di fronte. In una situazione di segregazione solo occasionalmente potevano incontrarsi, il confino non era certo il “villaggio vacanze” volgarmente indicato da uno dei nostri ex premier. A livello relazionale, comunque, ci sono stati anche affetti di carattere fraterno tra prigionieri. Luca ha condotto le ricerche storiche e prodotto la sceneggiatura che poi io ho disegnato: abbiamo dialogato e deciso insieme di non calcare la mano su aspetti considerati scontati, concentrandoci sul senso di alienazione dell’essere strappati dalle proprie vite per vivere una situazione coatta, in cui sentimenti e libertà vengono annichilite. Questo era l’aspetto fondamentale: la rappresentazione erotica, la sessualità passano in secondo piano, ci interessano i sentimenti profondi dei personaggi, la perdita della libertà, come intacca le relazioni tra le persone.

In Ciao Ciao, Bambina racconti di alcuni emigranti italiani in Svizzera negli anni ‘50, vicende ispirate anche alle tue vicende familiari, che però si intrecciano alla Storia con la ‘esse’ maiuscola. Secondo te, per fare un buon lavoro, l’artista non può evitare di raccontare la storia e la società in cui vive?

Un confronto ci sarà sempre, è inevitabile. A me è capitato di lavorare quasi sempre su temi storici perché mi permettono di riflettere su aspetti che si ripercuotono sul contemporaneo. Il libro scaturisce da un episodio personale: camminavo con mia mamma per le vie della città e lei osservava le differenze di comportamento tra i migranti di oggi rispetto a quello dei migranti italiani dei decenni passati. Lei è emigrata in Svizzera da molto giovane e questo confronto costante con il nostro passato per giudicare il presente è interessante. Il passato viene usato come lente di ingrandimento. Mi sono appassionata alle vicende di queste figure perché volevo fare un ritratto dell’emigrazione che non fosse cupo, che rappresentasse un aspetto della vitalità giovanile. E’ quasi un romanzo rosa: è tutto incentrato sulla musica, sullo svago, sul luogo di aggregazione in cui persone sole e lontane da casa si ritrovano. Uno spazio di formazione dei sentimenti: una storia di emigrazione che è anche una storia di formazione di persone che provengono da luoghi sperduti di campagna dove non avevano la possibilità di educarsi sentimentalmente. Una riflessione su come cambiano gli atteggiamenti nel tempo, quali sono le aspettative delle persone e anche sul romanticismo. Trovo che nel contemporaneo ci sia un romanticismo smodato, con punte talmente esagerate da impressionare, talvolta sembrano appartenere ad un’altra epoca. Si tratta di un’esigenza delle persone e questa lente d’ingrandimento mi ha permesso di rintracciare le radici di tali comportamenti, da dove prendono origine, come si sviluppano nell’arco temporale.

Tra i tanti personaggi cui hai dato vita, ti identifichi in almeno uno di essi, c’è qualcosa di tuo in ciascuno?

Forse in tutti. Quando uno disegna fumetti, rappresenta figure ma anche atteggiamenti, movimenti, quindi è abbastanza automatico pensarsi all’interno di un grande palcoscenico a rifare i gesti dei nostri personaggi, che portano con sé anche un po’ di noi. Ad un certo punto smetterò di disegnare persone more con il naso lungo e mi darò a bionde dal naso corto. I nostri amici e conoscenti sono comparsi spesso nei miei fumetti: In Italia sono tutti maschi aveva il problema di un cast maschile molto ampio, abbiamo rappresentato persone che conoscevamo, mentre per Leda c’era moltissimo materiale iconografico. Perciò ho cercato di lavorare anche su un piano più simbolico: Francesco Satta e Luca De Santis mi hanno aiutato a lavorare su questo. Ad esempio c’è Filippo Tommaso Marinetti che diventa una specie di opera futurista lui stesso, si scompone graficamente e inizia a roteare come una pallina, emette dei suoni. Mi sono divertita e concessa di non rimanere troppo aderente alla realtà.

Il fumetto come mezzo per affrontare temi delicati legati ad esempio alla sessualità, all’HIV, ma anche come riflessione sulle contraddizioni del vivere quotidiano, come in Monsieur Bordigon, lo “scarafaggio filosofico”. Quanto è efficace secondo te, rispetto agli altri medium tradizionali? Cosa può offrire di più?

Oramai è diventato un medium tradizionale. Domanda bellissima perché mi permette di parlare di una ricerca che sto conducendo in collaborazione con la Scuola di Scienze della Formazione su fumetto e didattica. Da una parte c’è la dimensione grafica associata al testo, scrittura e sequenza di rappresentazioni: ne hanno parlato prima di me studiosi illustri di letteratura per ragazzi e per adulti come Antonio Faeti, Umberto Eco. Il fumetto è un grandissimo mezzo di comunicazione, perché ha diversi tempi e strati di lettura, ha la capacità all’interno dello stesso racconto di raggiungere un pubblico vastissimo, che può non parlare la stessa lingua (attraverso l’immagine può cogliere e riportare degli elementi di significato). È un linguaggio che attiva diverse capacità cognitive, la condivisione d’immaginari ed è in completa trasformazione: lavora con altri linguaggi, insieme rielabora, digerisce e sputa fuori altre versioni. È completamente parte di quell’ambiente di narrazione in cui siamo immersi e che è abitato anche dalle serie tv, i cosplayers, il cartoon motion e tutte le altre forme meravigliose che stanno esplodendo e che in fondo non fanno altro che richiamarsi le une con le altre.

Sei abituata a lavorare con altri autori, oltre a Luca c’è Francesco Satta con cui hai realizzato diverse opere. E’ difficile produrre a quattro mani, o addirittura a sei mani?

Forse l’ultima volta abbiamo un po’ esagerato (ride). È stato faticoso perché abbiamo lavorato su un arco temporale lungo e facevamo inizialmente fatica a capire il taglio da dare al nostro racconto. Penso comunque che lavorare con gli altri sia sempre una grandissima fonte di ricchezza, perché innanzitutto si moltiplicano i mondi di riferimento e la capacità di riflettere e rielaborare ciascun elemento: il lavoro di squadra ha un potenziale di crescita immenso. Indubbiamente richiede una grande capacità di dialogare e di proporre soluzioni e di ragionarvi in maniera non egoistica. Io sono un po’ arrogante, dispotica ed invadente, le persone che lavorano con me lo sanno e me lo perdonano, anche se adesso si stanno un po’ ribellando… Invado a volte il campo altrui, contribuisco alla scrittura, talvolta me la prendo davanti ad una critica, sono un mostro difficile. Nonostante sia stato impegnativo, penso che quest’ultimo lavoro realizzato in tre sia stato in un certo senso un po’ come la “prima volta”. L’intensità dell’impegno mi ha permesso la comprensione di elementi che prima non avevo mai messo fuoco, nonostante i diversi libri realizzati e le collaborazioni a collane e con autori diversi. Più si moltiplicano le mani e le teste, più l’esperienza diventa significativa.

In che modo sviluppate l’interazione fra voi, c’è un pattern predefinito, dipende da volta a volta?

Non è mai un’interazione caotica perché è un lavoro che richiede estrema disciplina per far comprendere agli altri ciò che vorresti raccontare, cosa che già implica una certa lucidità. Non si possono cambiare le carte in tavola, bisogna condividere le proprie scelte in modo continuo e agire affinché che tutti gli elementi messi in campo abbiano un senso. A volte, ed è triste, si buttano via delle cose belle, un sacrificio necessario e difficile, perché la persona che ha portato quell’elemento si sente deprivata del suo ruolo a vederla scartata. In questo lavoro tutti quanti abbiamo messo qualcosa e tolto qualcos’altro: ad esempio, io mi sono battuta per inserire una scena d’aborto in questo libro perché mi sembrava importante che da questa sequenza scaturisse una certa sensibilità politica nella protagonista. Abbiamo litigato, ci siamo giurati eterna vendetta, ma quando il libro è uscito, ci siamo giurati eterno amore: lavorando onestamente e cercando di trasmetterci a vicenda il senso delle scelte narrative, tutti i pezzi del puzzle tornano al loro posto. In tutti i casi, il lavoro è stato organizzato in modo abbastanza classico, prima con una ricognizione globale del lavoro dell’autrice e del quadro storico, poi sono state scritte delle scene, è stata fatta una pulizia, Luca ha poi creato una struttura narrativa che tenesse le fila di tutti questi discorsi, togliendo anche personaggi storici importanti. Non sempre ha un senso fare dei libri molto corposi se la lettura complessiva non funziona nell’economia della storia.

Scorrendo la tua biografia ho visto che sei laureata in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Udine. Quando e come nasce il tuo interesse per il fumetto e l’illustrazione, quando decidi di farlo diventare la tua strada, diversa da quella che deriva dalla tua formazione?

L’interesse nasce da quando ero piccola: ho sempre letto fumetti in grande quantità e, come tutte le persone nate negli anni settanta, una grande appassionata di cartoni animati delle origini, soprattutto di manga. Mi sono appropriata delle prime copie di Candy Candy distribuite sul mercato italiano e le ho custodite gelosamente per decenni. Da quel tipo di narrazione, che i giapponesi definiscono strabica – da una parte i fatti oggettivi, dall’altra le sensazioni soggettive che i fatti generano nel protagonista – è nato il mio gusto nel raccontare. Intorno ai 15 anni ho iniziato a leggere il Nuovo Fumetto Italiano, gli autori Valvoline, le ultime pubblicazioni di Andrea Pazienza. Io abitavo a Pordenone e, nonostante la dimensione ridotta della città, ho trovato un’edicola all’avanguardia in cui arrivavano riviste inglesi, statunitensi, fumetti da tutta Europa… mai parlar male della provincia perché nella provincia a volte si scoprono cose meravigliose! Ho scoperto casualmente autori che amo tuttora, come Muñoz e Sampayo, Hugo Pratt. Alla fine degli anni ottanta ho conosciuto Davide Toffolo presso il quale ho frequentato un piccolo corso di fumetto. Poi, ho smesso di disegnare per dieci anni, nei quali ho studiato storia dell’arte e storia del cinema, grazie alle quali ho imparato i fondamenti iconografici della nostra arte. Quando penso ai fumetti, penso anche ai film, un svolgimento che dia pieno senso alla lettura, non certo un semplice affollamento di pagine di fatti ed eventi, il ritmo narrativo è per me importante. Per non dire della composizione, la pittura. Non so se queste cose escono, non me ne importa nulla: io ci penso. Senza considerare che negli anni novanta non esistevano delle vere scuole di comics: esistevano singoli corsi, tenuti da bravi professionisti, ma non percorsi strutturati, come all’Accademia, per formare degli autori. Forse non li avrei neanche intrapresi, preoccupata com’ero di risultare molto seria. Non che il fumetto non lo sia, ma c’è voluto un po’ di tempo prima di comprendere realmente che è la cosa che mi rende felice. Anche quando ho iniziato a pubblicare fumetti, nel 1998, con un racconto breve scritto da Francesco Satta sulla rivista Mondo Naif di Kappa Edizioni, grazie all’incontro con Vanna Vinci, tuttora amica e collaboratrice. Nonostante gli strumenti limitati, il risultato, asciutto, piacque molto e comparve poco dopo: un approccio anomalo rispetto a ciò che devono subire normalmente gli autori, in termini di lunghi percorsi di formazione e trafila con le case editrici. Subito arrivarono le fiere e le proposte di partecipare a raccolte. Tutto successe in maniera talmente rapida che ci misi degli anni a capire cosa significava essere un autore. Per poi capire col tempo che raccontare storie con i fumetti mi fa stare bene e mi permette di riunire tutti i miei elementi e farli vivere. Ora fa strano, visto che insegno a giovani autori che sono diventati nel tempo autori bravissimi o anche editori, pure più bravi di me.

Insegni anche Fumetto e Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna. C’è uno scambio con i ragazzi, ci si cambia a vicenda? Senti che nel tempo possa arricchire anche il tuo mestiere di fumettista?

Lavorare con una cinquantina di persone ogni anno è un’esperienza importante: ciascuno porta i propri sogni e cerca di capire se possono essere aiutati a svilupparli. Ho incontrato persone molto in gamba, ma la maggiore soddisfazione viene sempre dinanzi a coloro che riescono a mettersi in discussione, di conseguenza costringendomi a fare altrettanto. Un aspetto invece che mi sconcerta, parlando di stereotipi, è che il lavoro che impostiamo, anche guidando ciascuno a conoscere sé stesso – imprescindibile per essere autori compiuti – è di scandagliare delle informazioni acquisite, quasi inamovibili. Ad esempio, buona parte degli studenti sono ragazze, determinate a diventare autrici, e all’inizio della loro carriera dinanzi alla richiesta di rappresentare donne, esse ricalcano pienamente stereotipi maschili: ragazze tettone, scollate, in atteggiamenti provocatori. In principio non riuscivo a capire se fosse realmente un cliché interiorizzato o un gioco inteso a scandalizzarmi. Credo più la prima opzione, infatti abbiamo lungamente lavorato sullo stereotipo della donna bambina innocente, la donna puttana che si pone in un certo modo rispetto al mondo circostante. È una riflessione che copre un arco di tempo molto lungo, che serve per scardinare queste immagini interiorizzate dall’infanzia. Ricordando che la riflessione sullo stereotipo è un tramite, non un fine, così è utile sia per il narratore e per chi ne fruisce.

Ci avviamo alla conclusione. Che bolle in pentola, su cosa stai lavorando ora?

Bollono in pentola molte cose. Il libro che sto iniziando è un progetto realizzato con un autore per l’infanzia, Luca Tortolini, per la casa editrice Bao Publishing e si intitola L’avventura della bambina coraggiosa raccontata da lei stessa e uscirà nella primavera del 2018. Sarà dedicato ad un pubblico di giovani lettori, a colori, e vi narriamo l’avventura e gli stereotipi connessi: raccontiamo di bambine coraggiose, visto che ce ne sono molte in giro e vogliamo rivolgerci a loro, ma anche a quelli che non ancora hanno il coraggio. Ci saranno molti animali e mostri, cose orribili e bellissime, come in tutte le avventure.

Per finire, è antica prassi della redazione chiudere le interviste agli artisti con qualcosa di focoso. Prendendo spunto da Leda, ti chiedo: qual è il tuo dromedario dagli occhi di fuoco?

È il fumetto. L’ho evitato per tutta la vita: me l’hanno proposto per anni, mi hanno chiamato a collaborare a progetti collettivi ed ho sempre opposto rifiuti. Ho cercato di diventare un’archivista cinematografica, di lavorare nelle cineteche, ho fatto stage in tutto il mondo. Il fumetto era sempre lì che mi aspettava, ed io lo tenevo lontano con la paura di non essere in grado di disegnare, di sbagliare, di non raggiungere i miei lettori, di raccontare mondi che non interessano a nessuno. Tutti gli autori la conoscono. La paura di non sopportare il fallimento, già che fare un fumetto è un processo molto lungo ed è difficile ammettere di lavorare su una cosa sbagliata, può capitare. A un certo punto ho preso il dromedario e l’ho guardato negli occhi, ed eccoci qua.

versione estesa dell’intervista pubblicata sul numero 24 della Falla, aprile 2017 

foto: Roberto Pisano