DI CHE COSA PARLIAMO QUANDO PARLIAMO DI CAMBIAMENTO CLIMATICO

Una semplice linea luminosa sulla parete di una casa, a un paio di metri da terra. Un segno  bianco, glaciale e impersonale, che mostra dove potrebbe arrivare l’alta marea nei prossimi anni se il surriscaldamento globale non verrà arrestato o, per lo meno, ridotto. Siamo a Lochmaddy, nelle isole Ebridi scozzesi: brughiere e torbiere spazzate dal vento del nord, habitat per pecore e persone dalla scorza dura. Un paesaggio che in un futuro non troppo lontano potrebbe trasformarsi in una distesa di lagune paludose, come quelle descritte da J.G. Ballard in un romanzo di mezzo secolo fa, Il mondo sommerso. La linea luminosa che segna gli edifici e attraversa i prati è un’installazione intitolata Lines (57° 59´N, 7° 16´W) di Timo Aho e Pekka Niittyvirta che «esplora l’impatto catastrofico della nostra relazione con la natura e i suoi effetti a lungo termine», mettendo in evidenza come il cambiamento climatico in atto stia mettendo a repentaglio la sopravvivenza di intere comunità. Lines (57° 59´N, 7° 16´W) prende in considerazione solo uno degli effetti del surriscaldamento globale, l’innalzamento dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacci polari, ma vuole essere un simbolo che permetta di vedere con i propri occhi come potrebbe essere il futuro del pianeta se non agiamo immediatamente. Per dare maggiore corpo alle preoccupazioni dei due artisti finlandesi, ci possiamo rivolgere al documento più autorevole che la comunità scientifica internazionale abbia prodotto, anzi a una serie di studi che dal 1988 produce il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc, nella sigla in inglese), un organismo che lavora sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La prima notizia che si apprende dalla lettura di tali documenti è che, nonostante il clima mondiale sia sempre cambiato nella storia della Terra, mai come nell’ultimo secolo e mezzo l’aumento delle temperature medie del pianeta ha subito una tale accelerazione. La causa, oramai non ci sono più dubbi, è la nostra stessa società industriale: più consumiamo combustibili fossili (la benzina per le automobili, il gas per scaldarci, e così via), produciamo cibo in modo poco sostenibile (soprattutto l’allevamento intensivo ha effetti ormai ben documentati sul cambiamento climatico) e più abbattiamo le foreste, più immettiamo nell’atmosfera una serie di gas di scarto (in primis, l’anidride carbonica) che rafforzano l’effetto serra, cioè quel fenomeno per cui l’atmosfera terrestre, proprio come una serra, trattiene il calore. Negli ultimi cento anni o giù di lì, la nostra civiltà industriale ha fatto aumentare questo effetto, che è alla base delle temperature medie oggi così alte, in una serie di annate record nell’ultimo decennio.

Che cosa comporta questo aumento? A 2°C in più rispetto alle temperature dell’era precedente la Rivoluzione industriale, quando si è cominciato a bruciare in modo massiccio i combustibili fossili, gli sconvolgimenti sul nostro pianeta saranno sostanziali. I documenti dell’Ipcc fanno delle previsioni al 2030, mantenendo invariato il nostro consumo di combustibili fossili. Lo scenario è drammatico, la calotta di ghiaccio del Polo Nord sarà completamente sciolta durante le estati artiche: oltre alla sommersione di alcune delle Ebridi Esterne, significa per esempio niente più Venezia, niente più gran parte di Osaka in Giappone e New York negli Stati Uniti. Allargando lo sguardo, significa anche colpire all’incirca metà della popolazione della Terra, cioè quella che vive lungo le coste. Sempre in ambito marino, 2°C in più significano dire addio alle barriere coralline attuali che, oltre a essere bellissime, hanno un ruolo fondamentale negli ecosistemi costieri. Vuol dire anche che scompariranno il 18% delle specie di insetti, e non solo quelle fastidiose come le zanzare, ma anche gli impollinatori che permettono la riproduzione delle piante.

Se volessimo anche essere cinici e pensare solamente alle conseguenze dirette sull’umanità, il surriscaldamento globale verso cui siamo avviati esporrà entro pochi decenni un terzo della popolazione mondiale a ondate di calore estreme, con le conseguenze che già conosciamo sulle fasce più deboli della popolazione, come anziani, malati e bambini. Significa anche mettere quasi mezzo miliardo di persone in condizioni di non avere abbastanza acqua per soddisfare le proprie necessità, avere raccolti agricoli sempre più scarsi, fatto che renderà difficile produrre cibo a sufficienza per alcune comunità, soprattutto nei paesi più poveri del mondo che, oltretutto, saranno colpiti con maggior gravità rispetto ai fortunati abitanti dell’emisfero settentrionale e delle economie avanzate, dove il denaro potrà almeno contenere gli effetti diretti su una parte della popolazione.

Dovrebbero essere dati abbastanza spaventosi da riuscire a mettere d’accordo i governi di tutto il mondo per fare qualcosa e frenare questo innalzamento di temperature. Qui, purtroppo, le notizie si fanno ancora più livide. Le azioni da intraprendere subito per garantire la sopravvivenza della specie umana con un certo grado di sicurezza sono abbastanza chiare: bisogna cercare di consumare meno e di produrre meglio, stimolando l’avanzamento tecnologico e scientifico verso forme di energia più pulita. A questo, in linea generale, dovrebbe servire la cosiddetta Conference of Party (Cop), l’organismo internazionale per gli Accordi sul Clima, che si riunisce periodicamente con lo scopo di definire la road map globale per il contenimento del cambiamento climatico. Purtroppo, come tutti gli organismi internazionali di questo tipo fatica a trovare un terreno comune, con il rischio che le azioni concordate potrebbero risultare già in ritardo.

In più, negli ultimi anni paesi più interessati a un tornaconto a breve termine, come gli Stati Uniti di Trump e il Brasile di Bolsonaro, hanno più volte cercato di mettere un freno alla voglia di altri paesi di trovare soluzioni. È andata così anche all’ultimo meeting, celebrato lo scorso anno in Polonia, dove ci si attendeva un documento programmatico generale, ma si è tornati a casa solamente con propositi per il futuro e poche azioni concrete per l’oggi.

E a proposito di simboli, il governo polacco ospitante ha scelto Katowice come sede della riunione, una città del sud del paese che è diventata un polo industriale proprio grazie all’estrazione del carbone dalle miniere limitrofe e che oggi è una sorta di piccola Silicon Valley dell’Est Europa, con le sedi di tutti i grandi marchi digitali, proprio quelli che a parole stanno dalla parte della green economy e dell’economia sostenibile, e pensano al nostro futuro. Un futuro sul quale, in realtà, si addensano le nere nuvole dell’incertezza e dell’incapacità, con i politici attuali che sembrano degli sciocchi, ignari dei pericoli che molta parte dell’umanità sta correndo, oppure dei cinici calcolatori, capaci di distrarci abilmente da uno dei pochi temi che dovrebbe unirci tutte e tutti: la nostra sopravvivenza.

pubblicato sul numero 45 della Falla, maggio 2019