di Irene Moretti

Novara, 25 dicembre 2019. Inspira, espira. Dolore. Guardi l’orologio: dall’ultima contrazione sono passati quattro minuti. Inspira, espira. Ne arriva un’altra e ti rendi conto che non puoi più aspettare. Inspira, espira. Due minuti. Tu non puoi aspettare e nemmeno lui. O lei. Per quanto ti riguarda potrebbe anche essere un alieno. O una gallina. O un sasso. Non ti è mai importato. Non l’hai voluto. Non l’hai cercato. Anzi, no: non hai cercato lui, lei, alieno o sasso che sia, ma in generale te la sei cercata. Non è questo che ti hanno detto? Che te la sei cercata? Due minuti, forse anche meno. Inspira, espira. Te la sei cercata, te la sei cercata. Te lo ripeti come un mantra tra una contrazione e l’altra. Te la sei cercata, te la sei cercata. Magari questa volta te ne convincerai. No, col cazzo che te la sei cercata, Maria. Mentre intravedi le luci del pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore ripensi a come sei finita in questa situazione assurda.

Tra poco, se il bambino – o la bambina, o la gallina, o l’alieno, o il sasso –  non farà scherzi tutta questa storia sarà finita. Magari lascerai la città. Magari cercherai di dimenticare una volta per tutte. Magari un giorno avrai un bambino e lo avrai perché lo hai voluto e non perché un giovedì di aprile qualcuno ha deciso che no vuol dire sì. Te la sei cercata, te la sei cercata. Lo sai che non è così e forse questa consapevolezza fa male quanto l’ultima contrazione. Chi si cercherebbe un giovedì come quello? Chi si cercherebbe tutti i giovedì a venire? Chi si cercherebbe questa notte di Natale con un bambino – bambina, gallina, sasso o alieno che sia – che vuole uscire dal tuo corpo tra dolori inimmaginabili? No, col cazzo che te la sei cercata, Maria.

Te lo ricordi per filo e per segno quel giovedì d’aprile. L’hai rivissuto nella tua testa, nei racconti alla polizia, nei racconti a tua madre, nei racconti al mediatore talmente tante volte che anche se volessi servirebbe qualcosa da film di fantascienza per poterlo dimenticare. E poi non è vero che eri ubriaca. Due birre. Due birre non ti sono mai bastate per andare fuori. Due birre non ti fanno “perdere ogni inibizione”. Nemmeno se bevute in pubblico, nonostante il sindaco avesse deciso che “bere alcolici oltre un certo orario fuori dalle aree autorizzate” fosse vietato. No, tu avevi deciso che quel giovedì 25 aprile avresti festeggiato la Liberazione fottendotene delle ordinanze. Del resto, da Roma, qualcuno stava spingendo per abolirlo il 25 aprile. “Troppo divisivo”, dicevano. E siccome qualcuno aveva deciso che sì, divisivo lo era davvero, e che dall’anno successivo non si sarebbe più festeggiato, tu avevi deciso di festeggiare a modo tuo. Un’ultima liberazione prima che l’Italia sprofondi nel fascismo, ti eri detta. E allora avevi indossato quel vestito rosso, quello corto che ti lasciava scoperte le cosce e che metteva in risalto il seno. Era il tuo vestito preferito e dal venerdì mattina sarebbe diventato il tuo vestito più odiato. Sgualcito, Strappato. Te la sei cercata, te la sei cercata. Ma rosso su rosso non macchia e il sangue sull’orlo della gonna non si nota. Nemmeno lui avevi notato in un primo momento. E nemmeno il segno della sua fede al dito quando si era avvicinato per parlarti. Non l’avevi notato e ora la sua faccia non l’avresti scordata mai più. E nemmeno il suo nome. O il suo alito alcolico vicino al tuo viso. Sì, stava flirtando e tu, nonostante il suo alito alcolico, avevi flirtato a tua volta, scansando con grazia i suoi due primi tentativi di baciarti. E nel frattempo nella piazza non era rimasto nessuno. Della Municipale, spauracchio delle birre in strada e degli “abiti che offendano il comune senso del pudore”, non c’era traccia. Oh, come si sarebbero ricordati di te la mattina dopo! Quella col vestito rosso, come no. Ah, ma se l’è cercata, quella. No, col cazzo che te la sei cercata, Maria. Non avevi cercato i suoi baci e non avevi cercato le sue mani sui tuoi fianchi. No. No. No. Ma dove cazzo sono i vigili quando hai bisogno di loro? Un calcio a vuoto, tuo, un pugno a segno, suo. L’asfalto sotto la schiena. Il vestito rosso sollevato e una mano che ti tiene chiusa la bocca. Un dolore intenso, penetrante, i muscoli tesi. Una sensazione vischiosa tra le gambe. E poi il vuoto. L’ospedale. Te la sei cercata, te la sei cercata. È stato lui! È stato R.M.! Ma chi? L’avvocato? Ma scherzi? È un padre di famiglia lui! È un professionista stimato in tutta Novara! Te la sei cercata! Tu e quel vestito rosso, quello corto che ti lasciava scoperte le cosce e che metteva in risalto il seno, quello “offende il comune senso del pudore”. L’avrà provocato, sicuro e dopo si è pentita e si è inventata tutto! Vuole rovinarlo! Te la sei cercata, te la sei cercata. E poi, qualche settimana dopo, la buona novella: sei incinta, Maria. Il panico te lo ricordi. Te lo ricordi benissimo perché è lo stesso che stai provando adesso, mentre su una barella finalmente stai attraversando i corridoi del pronto soccorso del Maggiore.

Inspira, espira. Lo avevi fatto quando hai scoperto di essere incinta, lo stai facendo adesso, otto mesi dopo. Te la sei cercata, te la sei cercata e un bambino è un dono di Dio, non importa come sia stato concepito. Ma tu quel bambino – o bambina, o gallina, o sasso, o alieno – non lo volevi allora come oggi. È un dono di Dio e l’aborto è un omicidio, non si pratica in questa città. Te lo aveva ripetuto il ginecologo, l’ostetrica, tua madre e il mediatore. “Ma non preoccuparti, Maria: non dovrei crescerlo tu. R.M. e sua moglie lo adotteranno come se fosse loro e di questa storia non ne parleremo più, ok? I bambini devono avere un padre e una madre, capisci? Non possono essere cresciuti da una madre. Soprattutto da una madre come te”. Il che te la sei cercata, in quel momento, era rimasto non detto, ma chiaro come il battito che ti hanno imposto di sentire dieci settimane dopo. E per gli otto mesi successivi. Te la sei cercata, te la sei cercata.

Le contrazioni adesso sono praticamente una dietro l’altra. Il dolore è insopportabile. Chi se la cerca non merita nemmeno l’epidurale. O forse il bambino – o bambina, o gallina, o sasso, o alieno – ha troppa fretta e non c’è tempo: vuole pure nascere prematuro. Un’ultima spinta. Finalmente un vagito: non è né un sasso né una gallina, ma potrebbe ancora benissimo essere un alieno invece che un bambino. Ma non ti interessa. È finita. Qualche giorno in ospedale e poi potrai rifarti la tua vita. Cambiare città. Cambiare aria. Cambiare nazione, magari. E in quel momento ti ricordi della tua vita prima. Del 2018. Di un senatore e di un ministro e di alcune giunte comunali, come quella di Verona, che sembravano essere usciti da un romanzo di Margaret Atwood. L’Italia, dicevano, rischiava di diventare come Gilead.  “A Gilead non si sono svegliati un giorno e tutto era diverso, il cambiamento è avvenuto gradualmente, ma succedeva. La gente se ne è accorta solo quando è stato troppo tardi. La cosa più impressionante è che veniva loro tolto un pezzetto di libertà per volta, ma continuando ad adattarsi alla nuova situazione si sono ritrovati senza più niente”. L’Italia non rischiava di diventare come Gilead, l’Italia era già Gilead.

immagine in evidenza realizzata da Federica Perazzoli