di Francesco Colombrita

«In quanto omosessuale non puoi non conoscerlo». Stupita, financo un po’ scandalizzata, chiosava così una mia amica, tazzina di tè accostata al labbro, la mia ignoranza riguardo un poeta dal nome inaudito. Materializzatosi tra le mie mani un libro dal titolo Ottanta canzoni e apertolo con curiosa rapidità, compresi subito la ragione del suo monito. Dopotutto, trovare un apparente coming out nel componimento d’apertura di un canzoniere fa abbastanza effetto: “E’ disonore, lo so, ciò cui gusto protervo m’indusse / ma come celare il segreto che a ogni simposio dà vita? / Se quanto desideri è stargli vicino, poeta, non devi ritrarti da lui».

Nulla di troppo sconvolgente, si direbbe, data la pluralità delle voci della letteratura europea che, spesso, ha offerto il palcoscenico ad autori e personaggi dagli amori proibiti; peccato che l’autore, forte di un nome parlante, non sia un occidentale: Ḥāfeẓ infatti, colui che sa recitare a memoria il Corano, nasce e opera nella Persia del XIV secolo, girovagando tra le grandi corti dei principi musulmani dell’epoca tanto da acquisire una fama che lo ha reso immortale. Il suo Divan affianca tuttora, immancabile, il Corano nelle case degli iraniani e, recitato a memoria dalla gente comune, viene addirittura aperto a sorte per trarne vaticini.

Preponderante nella sua opera è il tema dell’amore, celebrato con passione, in una continua altalena tra il Dio e la tensione omoerotica, scivolando spesso verso quest’ultima: «M’ha rubato, ecco, il cuore impetuoso gitano / mentitore incostante dai modi assassini»; «Un fanciullo leggiadro rapisce il mio cuore, e un giorno per gioco / questa misera vita mi toglie, e per legge non ha colpa alcuna». Un io lirico spesso frustrato dal rifiuto da parte del fanciullo amato, che veste ora i panni di un giovane turco, ora di un dionisiaco coppiere di taverna, i cui riccioli neri incatenano il poeta che schernisce, alle volte, il mondo intellettuale suo contemporaneo per bigottismo e ipocrisia morale: “A chi, vano e altero, ci nega il diritto d’amare, / io contrappongo, trionfale argomento, che il volto tuo è bello”; “Mai sappia intelletto che il cuore è felice nei ceppi del ricciolo suo: / farebbero i saggi altrimenti, follie per finire in catene”.

Pagine costellate di “zingarelli vezzosi” e maestri di moschea che fuggono verso il vino, come d’altronde lo stesso poeta, che incita coppieri “dal volto di fata” a mescere e mescere fino all’ebbrezza, “è devoto alla coppa il poeta e di certa, saldissima, fede”. Voglia la critica vedere nell’amoreggiare di Ḥāfeẓ solo una grande metafora dell’amore divino che riprende i temi propri del mondo greco, o un vero e proprio universo biografico, poco importa. Ciò che stupisce è la disposizione di un poeta musulmano a parlare di un amore terreno, omoerotico, e divino mettendoli sullo stesso piano, e il fatto che la sua opera abbia acquisito un ruolo preponderante nell’immaginario dell’Iran. Un messaggio universale forse: “perchè il cuore che vive d’amore è vivente in eterno / e n’è con lettere eterne istoriato il quaderno del cosmo”.

pubblicato sul numero 19 della Falla – novembre 2016