di Elisa Manici

Oggi, 26 aprile, è la Giornata della visibilità lesbica. Se scorriamo il calendario internazionale dell’attivista Lgbt+, possiamo osservare che c’è una giornata dedicata alle persone bisessuali (il 23 settembre), una per ricordare la violenza istituzionale verso le persone intersessuali (l’8 novembre), una per la visibilità trans (il 31 marzo), senza dimenticare il Transgender day of Remembrance che il 20 novembre di ogni anno ricorda le persone trans vittime della violenza transfobica.

Non è un caso che i gay non abbiano a oggi sentito il bisogno di istituire una giornata dedicata specificamente alla loro visibilità, né un’altra dedicata specificamente all’omofobia, oltre a quelle che valgono per tutte le identità e gli orientamenti che compongono il nostro meraviglioso acronimo Lgbt+. Nel mare magnum generalista, ancora oggi, pur se in misura sempre minore, tutte le sfumature dell’arcobaleno si perdono nella definizione di “gay”. I gay non hanno bisogno di altre date oltre al 17 maggio e al 28 giugno, perché viviamo in una società (e mi sto riferendo a quella occidentale, l’unica di cui io possa parlare con contezza) profondamente patriarcale, maschilista e misogina, che quando affronta “la questione gay” si sente poi a posto con se stessa, credendo di aver barrato una volta per tutte la casellina della tolleranza.

Le cose stanno cambiando e negli ultimi anni la comunità Lgbt+ ha preso sempre più coscienza della ricchezza delle differenze e della necessità di creare rappresentazioni variegate, che non lascino fuori nessun*, o, come si usa dire oggi, della necessità di costruire le nostre narrazioni al di fuori di ogni stereotipo mainstream. Gli stessi gay hanno cominciato a fare i conti con la propria misoginia e il proprio privilegio, decostruendoli e affiancando sempre di più e sempre meglio le altre istanze della nostra comunità.
La parola lesbica è stata scelta dalle stesse attiviste per definirsi, nel pieno dell’autodeterminazione, ma è sempre stata scomoda, poco amata, considerata addirittura cacofonica. A questa connotazione negativa ha contribuito l’impronta della pornografia mainstream, che da sempre a “lesbica” associa un immaginario fatto di ninfette o panterone ipersessuate, che se la titillano tra loro ma solo finché non arriva un cazzo salvifico a riportarle sulla retta via.

Rispetto alla Giornata della visibilità lesbica avvengono contemporaneamente due fenomeni che contribuiscono alla sua notorietà davvero scarsa: da un lato, il calendario dell’attivista Lgbt+ occidentale è talmente pieno di date da celebrare che è in atto una saturazione, che rende arduo ricordarsi di tutte le soggettività e dare a ciascuna l’importanza che merita.
Dall’altro, come scrive la blogger statunitense Cindy Rizzo,( https://medium.com/@ctrizzo/the-dangerous-territory-of-lesbian-visibility-day-4eaa9c0f1de1): “l’etichetta di ‘lesbica’ è vista come una reliquia di un’altra era, una che richiedeva una stretta conformità su come ti  vestivi (jeans, niente trucco), come facevi sesso (in modo gentile e reciproco), con chi ti associavi (preferibilmente niente o pochi uomini), e chi escludevi (chiunque fosse transgender, specialmente le donne trans). Molto di questo era riflesso nelle mie esperienze da ventenne, negli anni ’70 e ‘80. Le donne più giovani – quelle che hanno 20 anni oggi – guardano a quell’epoca con orrore e, per molti versi, dovrebbero proprio farlo. La chiusura mentale e l’insistenza sulla conformità imbarazzavano molte lesbiche, anche allora.”

Il punto è che, nonostante una maggiore fluidità delle nuove generazioni, sia sull’orientamento che sull’identità, continuano a esistere donne che si identificano come lesbiche, e che in quanto tali subiscono come minimo una doppia oppressione, in quanto donne e in quanto lesbiche, se non di più, qualora incarnino altre identità oppresse, come l’essere non bianche, disabili, migranti, etc. Non lasciamo l’identità lesbica in mano alle Terf, non lasciamo che in mano a queste donne diventi, per dirla con Judith Butler, uno steccato identitario che esclude per timore di scomparire dalla faccia del mondo. Costruiamo tutte insieme una soggettività lesbica inclusiva e aperta, che non abbia paura di mescolarsi al resto del mondo Lgbt+, e celebriamola, celebriamoci, senza dare troppo peso al fatto che in Italia non ci sono ancora celebrities che abbiano fatto coming out: chiosando la campagna Pride del 2008, diventiamo noi le nostre medesime superoine della vita quotidiana, diventiamo un esempio per le altre, in termini di autoaccettazione e visibilità.